Chissà come lo racconterebbe questo sport di oggi Gianni Brera. Non parliamo di calcio perchè li non c’è storia. Ma GiuanfuCarlo avrebbe stupito raccontando anche di tiro a segno che è un grande sport che pochi conoscono. Così sali sul palco dell’auditorium Testori della Regione Lombardia per premiare la nazionale femminile juniores campione d’Italia e  ti accorgi che negli occhi di Anna,  Pernilla e Gresia,  c’è la passione che è il motore che fa girare tutte le cose. Difficile spiegare. Ma Brera lo avrebbe fatto alla sua maniera, avrebbe trovato le parole, se ne sarebbe sicuramente inventata qualcuna di nuova, avrebbe colto immagini e sfumature che quasi a tutti sfuggono. La differenza è tutta lì. E allora capisci che la quindicesima edizione del Premio Brera è un piccolo sforzo per cercare di mantenerla viva quella passione che a settantacinque anni fa ancora tremare le vene di voglia a Giuseppe Marchesi paracadutista della Folgore premiato alla carriera.  E premio all’Armani di Gentile, Melli, Hackett e compagni, perfetti e stilosi nella loro divisa ufficiale. Perfetti e stilosi in un’armonia che è la miscela perfetta tra glamour e gioventù. Premio al campionato vinto e alla storia delle “scarpette rosse” che continua ma che forse un tempo era un’altra cosa, più ruvida e più guascona. Nè meglio, nè peggio ma semplicemnete un’altra cosa. Diversa. Diversa come i tempi che cambiano. Così in uno sport che ormai twitta e viaggia con cuffiette, gel e tatuaggi. In uno sport fatto di numeri, statistiche, medici e dietologi. In uno sport dove si monitora tutto, dove il   cuore, la  potenza, le falcate, le pedalate, i gesti sono un algoritmo è sempre la passione a fare la differenza. La passione che porta una ragazza come Bebe Vio a diventare campionessa mondiale di scherma alle paralimpiad e che le dà una forza contagiosa che ti trasmette come una folata di tamontana . La passione che spinge  bracciata su bracciata, gambata su gambata Martina Grimaldi a mettersi dietro tutte agli europei dopo venticinque chilometri in mare che sono anche cinque ore di tormento. Ed è sempre la passione che ti lascia a bocca aperta ad ascoltare le storie di gregari raccontate da Marco Pastonesi, perchè è vero che “Pantani era un Dio”, ma poi sono sono quelli che portano le borracce che la storia ti permettono di scriverla.  E poco cambia se uno si chiama Gadret, Panizza, Nibali o Fontana.  Sia il Tour o sia l’ Ironman delle Hawaii la ricetta è sempre la stessa: cuore, sudore, gambe e fatica. E Daniel Fontana sarebbe stato l’eroe perfetto per la penna di  uno scrittore che sapeva fermare le storie in un attimo, in un parola,  in un’immagine. Di uno scrittore che amava i mediani, chi sapeva soffrie in mezzo al campo e  chi non si tirava indietro. E così pare di rileggerlo. E subito le onde di un Oceano, il sibilo di una bici da crono sull’asfalto,  l’affanno di un respiro all’ultimo metro di una maratona diventano poesia…

 

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