marSul Giro delle Fiandre ormai scriviamo un po’ tutti le stesse cose. Ma quelle sono,  per fortuna. Che ogni volta ti viene la pelle d’oca, che un conto è raccontarle, un altro andar là viverle sulla pelle, annusarle, pedalarle,  berle e mangiarle… Si sa quasi tutto: il Giro delle “Fiandre”  è un monumento. Sono i muri, sono la storia del ciclismo, sono un Paese che pedala, che sta sui bordi delle strade ad applaudire, sono birra e panini  aspettando la corsa, sono il pavè che non è un fastidio da asfaltare.  Sono i paesini che vivono addormentati per un anno tra le campagne, tra case e cascine che sembrano un dipinto fiammingo, sono i cieli bassi,  gli sterrati infiniti nei boschi e la brezza del mare del Nord. Sono strappi dai nomi impronunciabili dove le bici imbizzariscono, i muscoli anche, dove si va sù come  ubriachi,  dove piuttosto che mettere un piede a terra uno se lo fa tagliare. Sono il  pavè del Patenberg, la chiesetta del Kappelmuur che in tanti si segnano quando passano, sono le pietre grezze del Koppenberg o l’infinità del  Kwaremont dove la fatica è una smorfia che sfigura i tratti. Non c’è una storia che inizia e finisce. Non c’è gruppo compatto, non c’è scia, non ci sono treni. Qui più che altrove ognuno per sè e Dio per tutti. Non è il ciclismo eroico perchè  “nell’inferno del Nord” la retorica è gratis e nessuno la vuole più. E’ solo storia che tiene insieme tutte queste cose e che un giorno del secolo scorso divenne leggenda ovviamente per caso, quando il giornalista, indipendentista fiammingo Karel van Wijnendaele per far pubblicità al suo giornale lo Sportwereld  organizzò il Fiandre  per la prima volta. Va così, le grandi epopee cominciano sempre per caso. E la Ronde in un secolo è diventata il riscatto della Vallonia, terra ordinata e perfetta, di villette e giardini, dove fa buio in fretta, dove il tempo scorre lentissimo, dove il ciclismo è religione e la Ronde è la messa di Natale. Si aspetta come si aspetta il Natale, si santifica come il Natale, si gode della vigilia che fa fremere e sperare e poi vola via tutto in un giorno, troppo in fretta, lasciando il magone di un anno che, dopo lo sprint, dovrà nuovamente passare. Tradizioni che sono diventate pane quotidiano per chi ha nel sangue le corse del Nord. Per chi vive quel ciclismo lì che è uno sport ma anche uno stile, una “fissa”, un modo di essere fuori dalle convenzioni e dalle rotte. Le classiche del Nord sono corse fuori concorso e fuori-tempo, sono una rivoluzione fatta col “32”,  sono il folk-rock combattente dei Modena o della Gang suonato in chiesa. Ognuno ha il suo ciclismo e questo forse è quello che ti tira dentro di più. Da quelle parti ma anche qui. Sabato, tanto per raccontarne una, a pochi chilometri da Milano va in scena la Martesana van Vlaandereen,  da Inzago a Imbersago e ritorno dopo una serie  infinita di strappi e i muri che si nascondono tra il naviglio della Martesana e l’Adda.  Impossibile scovarli a meno che uno non sia divorato dal sacro fuoco del Nord: «Non è una gara solo un modo per pedalare insieme e fare un po’ di  sana fatica…» dicono gli organizzatori forse raccontandosi una grande bugia. E infatti non c’è classifica.  Meno frenesia, meno agonismo, meno treni da fissati, meno tempi, meno griglie ma soprattutto meno iscrizioni perché non si paga e meno regole perché ognuno corre con la bici che ha o che preferisce. Con la «Coppa Asteria» che si corre sulle strade di Bergamo e la «Muretti Madness» in programma a Firenze questa storia è diventata un fantastico “Trittico” del ciclismo fai-da-te,  per chi ha dentro questo mondo qui. Siamo all’inizio. Ma è già una piccola rivoluzione, anche questa cominciata un po’ per caso…