«La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche ​la sconfitta​ ha qualcosa di meraviglioso. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibili è forte: la vittoria, a volte, può rendere ​arroganti ​e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce ​la meditazione​: ci si chiede il perché della sconfitta, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende ​la sete del riscatto​. Mi verrebbe da dire che chi vince ​non sa che cosa si perde​». Così Papa Francesco ieri nella lunga intervista alla Gazzetta dello sport. Un’enciclica laica che mette lo sport al centro e che dall’impegno al sacrificio, dalla lealtà allo spirito di gruppo fissa i paletti e il senso più intimo della pratica sportiva. Papa Francesco celebra lo sport perchè lo sport nella sua essenza è “celebrazione”: della vita, delle sue gioie, delle delusioni, dei riscatti, delle ripartenze, dei bilanci e delle sconfitte. In un mondo che ci vuole sempre perfetti e vincenti, alle imperfezioni e  alle sconfitte  si dà, a torto, spesso una valenza negativa. E ha fatto bene il Papa a ricordarne invece il valore.

 

 

Non c’è il pareggio, per questo il ciclismo è crudele. Non c’è il pareggio e per questo il ciclismo è lo sport più ingiusto che c’è. Che ti porta a celebrare chi  vince ma a fare sempre il tifo per chi perde.  Dario Cataldo  e Mattia Cattaneo,  una carta vince e l’altra perde,  funziona così anche al Giro… Anche se  dopo 200 chilometri di fuga la voglia è quella di strapparle le carte, di prendersi per mano, abbracciarsi e arrivare al traguardo insieme. Duecento chilometri di fuga, da Ivrea a Como, sono una vita , sono un viaggio infinito ma non il più lungo che rimane quello di Albert Burlon, francese in terra di Francia, da Carcasson a Luchon tappa del Tour di 253 chilometri. Era il 1947. Duecento chilometri in fuga si fa in tempo a guardarsi, a parlarsi, a diventare amici, ad odiarsi, a farsela passare e a diventare amici di nuovo. Stessa fatica, stesso orizzonte. Pronti via e si va, c’è tempo per pensare alla vittoria, ci si penserà alla fine, agli ultimi duecento metri che se ci fosse il pareggio sarebbe un peso in meno…Così i minuti diventano dieci, dodici, sedici ma, anche se il gruppo lascia fare, là davanti bisogna dannarsi l’anima per non farsi rosicchiare tutto, per aggrapparsi a quei venti secondi che rimangono all’ultimo chilometro sul lungolago, per dar senso al sogno della prima vittoria in una tappa.  Dario vince e Mattia perde che se ci fosse il pareggio sarebbe la cosa più giusta, come sul ring dove spesso capita che l’arbitro alzi le mani di chi se l’è date e le ha prese senza far torto a nessuno. Pari e patta, sarebbe dovuta finire così, senza vincitori nè vinti, anzi con due vincitori. Ma nel ciclismo vince uno solo… E in duecento chilometri ci pensi alla vittoria. Hai tutto il tempo che vuoi. E’ un rovello che ti sfinisce. Ci pensi in ogni istante: quando spingi, quando stai a ruota,  quando la strada scende e sale. Ci pensi quando bevi,  quando dai un cambio, quando leggi i distacchi, quando vedi che i chilometri passano ma non ti prendono. La accarezzi, ti sembra di toccarla ma pensi anche alla sconfitta. Pensi che dopo tanta fatica ti toccherà giocartela.  E così raccogli le ultime forze, stringi i cordini delle scarpe e incroci per l’ultima volta lo sguardo complice del tuo compagno di strada. D’ora in poi ognun per sè,  senza rancore… Dario vince e Mattia perde ma poi si abbracciano. Ci fosse stato il pareggio tutto ciò non sarebbe mai successo. Per questo il ciclismo è lo sport più bello che c’è…