Laurent Fignon se lo ricordano un po’ tutti perchè perse un Tour per otto secondi… Era il 1989 e il francese venne battuto da Greg LeMond all’ultima cronometro. Beffato dall’americano ma soprattutto dall’intuizione di un ex-istruttore di sci di nome Boone Lennon che masticava di aerodinamica meglio di chiunque altro  e che per primo ideò le protesi per le prove contre la montre come dicono i francesi. Le appendici fecero la differenza in quel Tour e spalancarono le porte al ciclismo del futuro. Caschetto biondo,  occhialini tondi da intellettuale e l’aria un po’ supponente tipica dei francesi, Fignon andava forte, anzi fortissimo. Perchè uno che vince due Tour, un Giro, la Sanremo, una Freccia vallone e molto altro ancora come volete che vada… Soprattutto di Fignon restò impresso nella mente di molti italiani  il Giro dell’84 e quell’ultima tappa a cronometro che arrivava all’Arena di Verona. Era l’epoca delle prime ruote lenticolari, di Francesco Moser che andava come una moto e di quell’elicottero che gli organizzatori gli piazzarono sulla testa dalla partenza di  Soave  che a dire del “professorino” gli costò Giro e maglia rosa che finì infatti sulle spalle del trentino. Più o meno quarant’anni fa.  Laurent Patrick Fignon, nato un venerdì mattina all’ospedale di Bretonneau, ai piedi di Montmarte a Parigi, se n’è andato 13 anni fa, portato via da un tunore al pancreas. Una vita intensa, sportivamente e non solo sportivamente, raccontata nell’ autobiografia “Nous etions jeunes et insouciants” uscita in Francia nel 2009 e tradotta in Italiano nella collana AlVento (Mulatero editore). Un libro di 290 pagine che si legge in un fiato che scorre via veloce proprio come pedalava lui che prima di salire in bici aveva fatto un po’ di tutto: calcio, pallavolo, pallamano, atletica. “Eravamo giovani e incoscienti” è un racconto dissacrante e controcorrente un po’ come è stata la vita del francese, un viaggio nel ciclismo degli uomini più che degli atleti , in un ciclismo dove la sola ragione d’essere era l’attacco. E’ la vicenda di un uomo “pensante” che non si è mai fatto attrarre dalle masse ma non è rimasto indifferente al calore della gente, alla moltitudine di persone che si affollano su una salita per seguire la corsa più bella del mondo. Per dirla con De Andrè è una storia che va in direzione ostinata e contraria. “Non dico che ai miei tempi fossimo migliori- scrive Fignon- Eravamo diversi e io penso di aver vissuto il breve intermezzo hippie del ciclismo. E ne sono fiero…”. Altro che otto secondi…