Ciò che fa la differenza nelle Strade Bianche  non è l’ultimo muro, tremendo, di Santa Caterina al 18 per cento prima di arrivare in piazza del Campo su cui Mathieu Van der Poel sbriciola con una progressione devastante le resistenze di un campione del mondo come Julien Alaphilippe e di un Re del Tour come Egan Bernal.   La differenza della Strade Bianche è che è una corsa che riavvolge il nastro di un ciclismo che forse negli ultimi anni è andato troppo veloce e nel cammino ha perso  un po’ della sua storia. Troppa fretta, troppa tecnologia, troppe gare, troppi interessi, troppe moto, troppo di tutto a confondere mito e leggenda con tappe inutili e ordini di arrivi non sempre all’altezza. Alle Strade Bianche non succede. Basta guardare i nomi di chi ha vinto su questi sterrati per capire che non è mai per caso: da Cancellara a Kwiatkowski, da Stybar ad Alaphilippe a Van Aert.  Ciò che fa la differenza qui è la sfida antica, eroica, da uomo solo al comando tra polvere o fango, tra vigne, filari, casali e contrade che sanno d’altri tempi, tra  cipressi alti, schietti e giovinetti. Una sfida che porta a riscoprire l’anima e la meccanica del ciclismo che si alza sui pedali senza tener d’occhio i watt, con la forza che serve per saltare via brecciole, buche e cunette che ti si parano davanti su salite che non ti aspetti. Con le ruote che slittano, s’infangano, si fermano sugli strappi più duri, con le incognite di un guasto o di una foratura che sfuggono tattiche e algoritmi.  Ciò che fa la differenza nelle Strade Bianche è che la storia è tornata recente e ha riportato il ciclismo al centro e alla  sua origine. Che è un’origine semplice, popolare,  che capiscono tutti senza necessità di intermediari:  vince il più forte, punto. Non c’è trucco e non c’è inganno. E non serve essere esperti, arrovellarsi sulle tattiche, sfinirsi in discussioni su formazioni e moviole per capire come andrà a finire, per scommettere e pronosticare: basta avere pazienza, guardare e godere. Il resto vien da sè: ed è sempre il meglio.