Il sogno è far sedere sulle sue selle chiunque pedali. I grandi campioni, chi va a passeggio con moglie e figli, chi va al lavoro e chi la domenica mattina usa la bicicletta per andare a messa. Dalle sue parti va ancora così. Giuseppe Bigolin, 82 anni, alpino della Brigata Cadore, tra i primi volontari nella tragedia del Vajont, è il presidente di Selle Italia, uno dei grandi marchi del ciclismo italiano e non solo italiano, una di quelle aziende che raccontano i valori di un’imprenditoria fatta di tradizione, di tenacia e di intuizioni che sono il tessuto forte che tiene insieme l’economia del nostro Paese. Che raccontano modernissime storie di altri tempi, di capitani coraggiosi capaci di rischiare, investire, innovare, primi ad entrare in azienda e ultimi a uscire. Una storia d’impresa che parte da Asolo, provincia di Treviso, in Veneto nel quartier generale che il «Bepi», così lo chiamano i suoi, ha voluto mantenere in quella «fabbrica della bellezza» che fu la Brionvega, capolavoro assoluto di design industriale firmato negli Anni ’60 dall’architetto Marco Zanuso: uffici e magazzino, il «Bike lab» avveniristico illuminato dalle vetrate rosse dalle quali si ammirano la Rocca di Asolo e l’Ossario del Monte Grappa. Ed è un bel lavorare ed anche un bel vivere che nelle pause pranzo per molti dipendenti si traduce nel cibo al sacco su tavolini da pic-nic comodamente sistemati in un parco che si perde a vista d’occhio. E la storia di Selle Italia continua. Cominciata più di un secolo fa a Corsico, alle porte di Milano, quando l’auto era un lusso e la bici era per molti (quasi tutti) l’unico vero mezzo di trasporto, è arrivata ai giorni nostri protagonista di una bike economy necessaria e di moda. E così le scommesse sono diventate altre: le tecnologie hi tech, i materiali riciclabili, le linee di produzione a chilometro zero, automazione, robotizzazione ma soprattutto eco-sostenibilità. Selle Italia strizza un occhio non soltanto ai ciclisti, ai quali in 120 anni di vita ha sempre cercato di alleviare le sofferenze, ma anche alla difesa dell’ambiente circostante, rinnovando così un binomio, quello fra bicicletta e green, che l’emergenza Covid ha contribuito a portare ulteriormente alla ribalta. Il «Bepi» è sempre lì, sul pezzo. È una vita che è sul pezzo. Ed è normale che sia così per lui che, quando qualcuno gli chiede di far bilanci, si dice soddisfatto ma fa sempre anche i conti col rammarico per ciò che non ha ancora fatto. E detto da uno che ha scritto con le sue selle un bel pezzo di storia del ciclismo mondiale è tutto dire.  Una lunga vicenda industriale, imprenditoriale e familiare che oggi in azienda vede anche i suoi due figli Riccardo e Giuliana che è alla guida di Selle San Marco, altro marchio storico, e la moglie, «la comandante» come affettuosamente la chiamano a casa. Una storia che per lui arriva quasi per caso.

 

«Io avevo iniziato a lavorare nel campo dei filati e dell’abbigliamento. Già arrivavano le prime commesse importanti quando un giorno, mio fratello Riccardo, arriva si siede a tavola mi dice: “Bepi ascolta, ho trovato una cosa che potrebbe fare al caso tuo. Ho rilevato un marchio che si chiama Sella Italia e potresti lavorarci tu…
E lì comincia l’avventura…
«Sì, più o meno anche se io ero parecchio scettico, il lavoro nell’abbigliamento sembrava già prendere la strada giusta, ma poi decisi di fidarmi di mio fratello e meno male, perché aveva ragione. Modernizzammo il marchio trasformandolo in “Selle Italia” al plurale e cominciammo».
Facile.
«Neanche un po’. La mia è una storia lunga».
Che comincia da suo padre…
«Sì, faceva il mugnaio e in casa eravamo in tredici figli, otto maschi e cinque femmine. Quando i contadini ci incontravano o andavamo alla macina ci confondevano; “ma qual figlio seo ti…”. Io ho avuto la fortuna di studiare e mi sono diplomato come perito industriale. Ma in casa mia ci è stato sempre insegnato a far fatica e a rispettare la fatica…»
Così le ha insegnato?
«Non era uno che faceva tante prediche. E non servivano perché io l’ho sempre visto lavorare e ho imparato cosa significa. Ci ripeteva sempre che la fatica assidua e operosa vince ogni cosa e con noi era bastone e carota anche se credo d’aver preso più bastonate che carote. E allora non c’erano gli psicologi…»
Cosa le ha lasciato?
«Quando se ne è andato nel testamento ha lasciato scritto: “Caro Bepi ti lascio…”».
Basta?
«Basta».
E come si arriva ad essere il titolare di una delle aziende leader nel settore delle selle al mondo?
«Si parte da lontano perché dopo il diploma e il servizio militare ho cominciato a cercare lavoro nell’industria cartaria, il settore per cui avevo studiato. Due anni in Germania come ospite lavoratore e poi sono tornato in Italia dove mi hanno anche fatto una proposta di assunzione. Ma non ho mai cominciato: non era la mia strada…».
La via era un’altra?
«Il paese dove vivevo con la mia famiglia era noto perché era sede di tantissime filande. Un’industria florida negli anni Cinquanta fino a che non iniziarono le grandi importazioni della seta dal Giappone. Nel giro di un paio d’anni chiusero quasi tutte. Così la nostra famiglia decise di investire nel settore delle selle».
Una svolta.
«Sì, uno dei miei zii più intraprendente cominciò con il Feltrificio Bassanese a realizzare selle da passeggio con il sottosella fatto in pelle di animale. Ma nonostante in quel periodo si fossero trasferite dalle nostre parti aziende di bici e componentistica ciclistica importanti come Atala e Torpedo, gli affari non andarono come si sperava…».
Quindi come si arriva a Selle Italia?
«Una mattina mio fratello mi chiama in azienda perché aveva bisogno di qualcuno a dare una mano. Mi disse “vieni fintanto che c’è bisogno” ma poi quel “fintanto” è diventato “finsempre”. Anche perché una sera a tavola mi disse: “Guarda che a Corsico, vicino a Milano, c’è Sella Italia che sta chiudendo. È un bel marchio, ci sono i macchinari, c’è tutto. Anziché metterti nel tessile… Pensaci”».
E lei ci ha pensato…
«Nel 1967 prendo Sella Italia in società con mio fratello: soci al 50 per cento. Facevamo trenta selle da corsa al giorno sagomate con le pompe ad acqua. L’azienda in pratica eravamo noi due. Lavoravano giorno e notte, sabato, domenica, Pasqua e Natale…».
Altri tempi.
«Sì altri tempi ma siamo andati avanti. Finché, quando decisi di sposarmi, mio fratello mi regalò la sua quota come dono di nozze: il 25 per cento a me e il 25 per cento a mia moglie».
E da lì è andato in fuga…
«Il ciclismo in quegli anni cominciava ad evolversi. Una crescita sportiva ma anche tecnica e per le selle la svolta fu passare dal cuoio ai materiali più moderni come la plastica. Fu una vera e propria rivoluzione per chi le produceva ma anche per i campioni. Le selle in cuoio avevano una lavorazione diversa e più complessa e poi andavano trattate per dare la forma: ogni ciclista aveva la sua. Pensi che Fausto Coppi le selle con cui gareggiava se le portava in giro per il mondo in valigia».
C’era concorrenza?
«Sul mercato c’erano colossi che sembravano piranha e io avevo terrore di fare la fine del pesciolino. Facevamo parecchia fatica ad entrare nella distribuzione dei negozi quindi pensai che avevano bisogno di aprirci una strada. Serviva un’idea, qualcuno che ci tirasse la volata…»
Il «Tasso» Bernard Hinault ad esempio?
«Sì, proprio lui. Allora correva e dominava. Erano i tempi della Renault-Gitanes come sponsor e noi avevamo appena messo in produzione la sella Condor, rivoluzionaria per l’epoca. Chiesi ad alcuni conoscenti di procurarmi il nome del suo manager e con un po’ di faccia tosta lo contattai».
Gli telefonò?
«No, andai direttamente a Parigi alla fine del Tour. Riuscii ad incontrare Hinault e gli dissi che avrei potuto fargli la sella Condor personalizzata con lo stemma del Tasso che era il suo soprannome. Gli offrii anche una percentuale sulle vendite. Accettò. Nel 1980 poi vinse il titolo mondiale e io mi ritrovai con il campione del mondo sotto contratto…».
Fu il suo primo testimonial?
«Non subito. Il primo spot di Selle Italia me lo inventai poco dopo al Giro di Lombardia con la prima Condor con lo stemma dedicato al campione francese. Hinault era alloggiato all’hotel Michelangelo e io chiesi al fotografo dei matrimoni di Rossano di seguirmi a Milano: “Non si sposa nessuno ma dobbiamo fare un paio di foto”. Raggiungemmo Hinault nella sua stanza, gli facemmo indossare la maglia di campione del mondo e gli scattammo un paio di foto che pochi giorni dopo finirono sulle pagine di un mensile di ciclismo…».
Ma sulle sue selle si sono seduti anche Eddy Merckx, Felice Gimondi, Miguel Indurain, Francesco Moser, Paolo Bettini tanto per fare qualche nome…
«E tanti altri ancora. Rapporti professionali con campioni che poi sono diventati amici. Eddy lo sentivo spesso, così Felice. Indurain ancora oggi passa qui a trovarmi ogni volta che viene da queste parti».
E Marco Pantani?
«Fa storia a sé. Con lui ho avuto un rapporto quasi paterno, ci parlavamo, si confidava. Quasi sempre dopo le sue vittorie ci incontravamo a cena a Cesenatico e proprio durante una di quelle serata nacque l’idea di chiamarlo “Pirata” in onore a suo nonno, uomo di mare. Un ’idea che poi è diventata una delle nostre selle più famose».
Poi, il 5 giugno 1999…
L’ho pregato, quando è esplosa la “bomba” dell’ematocrito a Madonna di Campiglio, di non parlare, di allontanarsi dalle polemiche, gli ho anche proposto di andarsene per un po’ in una mia casa in montagna…».
Cambiamo discorso?
«Meglio…».
Parliamo di rivoluzione?
«La vera rivoluzione è stata la sella Flite. Per me è una pietra miliare. Le selle un tempo curvavano verso il basso. Abbiamo pensato di togliere quella parte di scafo che la irrigidiva e, tagliandole i fianchi, ci siamo resi conto che la struttura diventava elastica e confortevole. Di lì non si è più tornati indietro. Nell’84, dopo aver visitato una azienda chimica tedesca che produceva protesi in silicone, ci è venuta l’idea di utilizzare la stessa tecnologia per rendere più confortevole la seduta. Poi sono arrivate le selle tagliate al centro per alleggerire la prostata, poi il carbonio ed ora con la tecnologia produttiva Greentech che ci permette di produrre selle a basso impatto ambientale abbiamo intrapreso un percorso che ci porterà a perseguire l’obiettivo Net Zero sul riscaldamento globale entro il 2030».
Vi hanno seguito in molti?
“In parecchi ma ho sempre preferito assumere dipendenti che avvocati…».
Sembrano passati anni luce da quando tutto è cominciato…
«In un certo senso sì. Ora tra produzione, ricerca, commerciale e marketing diamo lavoro a 54 dipendenti qui in azienda e ad altre 600 se si considera l’indotto».
Come lo vede il futuro?
«Il futuro lo vedo nella bicicletta che nei prossimi anni sarà sempre più diffusa non solo nello sport ma soprattutto nel tempo libero. È un vizio, ma un vizio sano».
E il futuro di Selle Italia?
«Nella scientificità e nella ricerca intese come capacità di proporre un prodotto sempre più su misura. La vera rivoluzione è nell’aver introdotto il concetto che ogni ciclista ha una sua sella, diversa per tipologia, misura e forma».
Cosa lascia ai suoi figli?
«Un consiglio. Parlate poco e lavorate tanto…».