Il sole non sorge mai. Fa luce poco dopo nove del mattino  e alle due e mezzo già si accendono le luci che annunciano il Natale ma che danno anche un segno di vita nelle case e casette che  si incontrano  sulle strade delle Lofoten. Così da metà novembre a metà gennaio. E’ la notte polare dove il buio è blu, dove la luna ti accompagna fin quasi al pomeriggio, dove le giornate finiscono in fretta e i ritmi si fanno più lenti e un po’ più intimi, dove si sta spesso con il naso all’insù sperando scoprire in cielo un segnale abbagliante dell’aurora boreale. E’ la Norvegia che da Tromso va ad Harstad con una strada europea, un paio di tunnel sottomarini e  qualche stradina ghiacciata. Un arcipelago che toglie il fiato,  miscela magica di fiordi e case di pescatori,  di merluzzi messi ad essiccare, di terre vichinghe diventate contee, di neve, ghiaccio e acqua che si toccano e si tengono stretti insieme aspettando che da Est il sole torni a farsi vivo. Natura potente che sembra andare in letargo un po’ come gli orsi che da queste parti quest’anno, forse per il caldo, stanno però aspettando ancora un po’. Ma ovviamente caldo non fa. E allora te le chiedi come da queste parti,  oltre allo sci di fondo e ad una delle nazionali  più forti di sempre, si possa magari anche pedalare, correre, giocare a tennis, insomma fare sport e produrre campioni. Il giornalista americano Tom Farrey , autore qualche tempo fa del  libro” Game On: The All-American Race to Make Champions of Our Children”, cercò di spiegarlo con una ricerca pubblicata sul  New York Times. Voleva capire come avessero fatto gli Stati Uniti a diventare una superpotenza sportiva mondiale pur producendo una popolazione così sovrappeso e fisicamente inattiva,  e cercando modelli alternativi e si imbatté proprio nel sistema sportivo norvegese. “Immaginate una società in cui il 93% dei bambini cresce praticando sport organizzati, dove i costi sono bassi, le barriere economiche all’ingresso poche e dove gli adulti non iniziano a dividere i deboli dai forti finché i bambini non sono cresciuti, non si sono sviluppati fisicamente del tutto e non hanno manifestato con chiarezza i loro interessi- scrisse-. Bene questa è la Norvegia….”. Non solo. Passi sulle strade ghiacciate  che attraversano l’arcipelago e ti imbatti in scolaretti che, cartella in spalla, manopole e passamontagna se ne vanno a scuola con dieci undici gradi sotto lo zero senza nessun bisogno di essere accompagnati in auto proprio davanti all’ingresso come accade dalle nostre parti perchè magari piove. “Qui funziona così- spiega Roberta che fa la guida turistica in Norvegia estate e inverno- I piccoli sono abituati a star fuori. La mamma deve spalare la neve per liberare l’uscio di casa? Il bimbo nel passeggino è di fianco a lei. L’intervallo nelle scuole? Si va fuori a slittare o a pattinare, qualsiasi tempo ci sia…”. E allora molte cose si spiegano. C’è un fondo sovrano che dà la tranquillità economica che serve; c’è il rigore che una leva obbligatoria per i ragazzi e facoltativa per le ragazze insegna; ci sono strutture e ci sono fondi governativi che sostengono lo sport dei ragazzi. Ad un patto. Tutte le 54 federazioni sportive sottoscritto una Carta con cui si impegnano a rispettare i diritti dei bambini nello sport. Non possono partecipare a nessun campionato nazionale prima dei 13 anni e nessun campionato regionale prima degli 11. La violazione delle regole da parte di una federazione o di un club comporta l’esclusione dai sussidi governativi. Detto, fatto ma  soprattutto un principio rispettato che andrebbe preso a modello da molti allenatori giovanili dalle nostre parti e soprattutto da molti genitori convinti di aver sempre figli campioni da proporre, sostenere ed allenare sostituendosi agli allenatori. In N0rvegia invece la motivazione dei bambini è al primo posto perchè il principio è che  “In un Paese piccolo e con una popolazione di cinque milioni di persone non ci si può permettere di perdere per strada i bambini solo perché lo sport non è divertente…».   Qui con gli sci da fondo ci si muove come da noi in bici: si va a scuola, al lavoro, si fa sport. E i frutti arrivano. Alle ultime Olimpiadi invernali di Pechino la Norvegia è stata la prima del medagliere con 16 ori, 8 argenti e 13 bronzi. Non è un exploit perchè nel 2018 a Pyeongchang, gli atleti di Re Harald V, avevano fatto più o meno la stessa cosa. Da Bjørn  Dæhlie , che con otto titoli olimpici e nove iridati , è l’atleta che ha scritto il mito del fondo a Johannes Klaebo  che di medaglie olimpiche ne ha già a vinte cinque oltre a sei mondiali e tre Coppe del Mondo, la storia non si è mai interrotta. Si dice da queste parti che se si vuole fare un dispetto ai norvegesi, si deve costruire dalle loro parti un impianto di risalita.  Non è  sempre vero perchè anche nello sci alpino non sono rimasti a guardare.  Da Andrè Aamodt a Lasse Kius, da Aksel Svindal a Henrich Kristoffersen fino a Aleksander Aamodt Kilde sono state una pioggia di titoli mondiali e medaglie olimpiche.  E non è tutto qui.  Nel ciclismo Tobias Foss, che corre nelle file della Jumbo Visma, ha già vinto un Tour de l’avenir e un campionato del mondo a cronometro. Nell’atletica Karsten Warholm è stato  campione olimpico dei 400 metri ostacoli a Tokyo 2020 ed è il  detentore del record mondiale della specialità con il tempo di 45″94. Jakob Ingebrigtsen è stato campione olimpico dei 1500 metri piani sempre a Tokyo 202o. Nel tennis Casper Ruud è reduce da una storica semifinale al Master di Torino ed è uno degli astri nascenti del circuito.  Nel calcio Erling Haaland,  che ora gioca con il Manchester City, è il centravanti più forte al mondo e da queste parti ( ma non solo da queste parti) è gloria nazionale. Quasi quanto Magnus Carlsen che però gioca a scacchi . Campione del mondo in carica dal 2013 è diventato grande maestro nel 2004, all’età di 13 anni, 4 mesi e 27 giorni. Il suo merito più grande è però aver messo davanti a una scacchiera  quasi tutti norvegesi e così ha fatto la sua e un po’ anche la loro fortuna. La sua filosofia scacchistica ben riassume il senso di un Paese che vive tra i ghiacci e spesso al buio: “Il mondo oggi ha più che mai ha bisogno di un gioco che insegni a pensare – aveva raccontato alla vigilia di un mondiale ad un giornalista spagnolo del Pais- Perché la vita che conduciamo non incoraggia a farlo. Intendo la fretta, l’uso improprio dei social network, la quantità di messaggi che arrivano ovunque e ai quali dovresti rispondere. La stragrande maggioranza della popolazione norvegese ora rispetta gli scacchi e incoraggia i propri figli a giocare….”. Che poi è un modo per tenere accesa la luce anche quando il sole si prende una pausa.