Una tortura. Perchè alla fine il senso è anche un po’ quello.  Un sottile masochismo che accomuna gli atleti che si cimentano nelle prove estreme. C ‘è chi dice che abbiano qualche colpa da espiare,  chi sostiene che la sofferenza che molti sportivi anche non più giovani si infliggano sia solo volontà di dare una svolta alla proprie giornate, di rivedere uno stile di vita, di dimostrare qualcosa soprattutto a se stessi. Tutto ciò a volte porta mettersi addosso il pettorale di corse anche più di estreme, incomprensibili, assurde, impossibili da giustificare. La domanda è “perchè?'”. Ma un perchè non esiste o meglio, esiste eccome ma è chiaro solo nella mente di chi decide di provarci.  Da quattro anni in Inghilterra,  a Bath nella Contea del Somerset, a metà marzo si disputa l’ “Ultra Tunnel”, una ultramaratona di 320 chilometri che si corre interamente nella galleria pedaonale di Combe Down, la più lunga del Regno Unito. Un angosciante budello sotterraneo  di un chilometro da percorrere avanti e indietro per  200 miglia nel tempo massimo di due giorni. Una sfida senza aiuti esterni, senza aree dove fermarsi, senza possibilità di aiutarsi con i bastoncini o con le cuffiette che trasmettono musica. Ai ristori solo acqua, Coca Cola e snack, il resto è  rifornimento fai-da-te, con il cibo che ognuno si carica in uno zainetto e che, con il passare dei chilometri, rischia però di diventare zavorra.  E poi il buio. Il tunnel di Combe down è scarsamente illuminato ma dalle 23 alle 5 del mattino è buio pesto e l’unico aiuto concesso è quello di una lampadina frontale.  Quasi nulla. E così la corsa diventa una lotta col buio. Una lotta che, come hanno spiegato alcuni studi scientifici, mette a dura prova la vista e le cellule dei fotorecettori della retina che  devono adattarsi in condizioni di scarsa illuminazione  ma , alla lunga, non riescono più a trasmettere informazioni dall’ambiente al cervello. Saltano i cicli di luce e buio, saltano anche quelli di sonno e riposo  e  il rischio  di disorientarsi e di allucinazioni è alto.  Racconta Karl Baxter che  nel tunnel ha corso nel 2020: “Ad un certo punto ho visto davanti a me  una famiglia di abominevoli pupazzi di neve, una lumaca enorme e mi è sembrato di essere sull’orlo di un precipizio… Così ho deciso di ritirarmi”. Ma non è andata meglio l’anno dopo a  Mandy Foyster , l’unica donna a finire questa ultramaratona nel 2021: “Al chilometro 318, ho quasi perso la vista. Non riuscivo a vedere nulla e sono andata a sbattere contro il muro diverse volte. Avevo un dente rotto. Mi sentivo come se stessi per crollare. Era la prima volta da quando correvo che mi sono sentita davvero preoccupato per la mia salute. Ma ero ormai alla fine e ce l’ho fatta…”. Non si arriva a correre a Combe Down per caso. Chi si iscrive, per essere ammesso, deve aver corso e finito nelle sua vita almeno due ultramaratone da 100 chilometri. Ma ovviamente non è il lasciapassare per arrivare al traguardo visto che si ritirano quasi tutti . Nelle quattro edizioni disputate, su una media di 40 iscritti, il tasso di abbandono è stato del 95 per cento: nella prima edizione alla traguardo sono attivati in due, lo scorso anno 14.  L’organizzatore, Mark Cockbain, un ultra-runner britannico che ha portato a termine numerose prove di resistenza, è schietto nella presentazione di questa follia: “È una sfida molto semplice senza riparo o area di sosta. Serve a capire quanti chilometri un atleta riesca a correre in 55 ore…”. Fine.  Ovviamente non c’è modo di allenarsi perchè  le  condizioni ambientali del tunnel si trovano solo nel tunnel e perchè in realtà quella di Combe Down non è una corsa ma una gara di adattamento in cui più dei muscoli comanda la testa. Cockbain ha una sola certezza:  “Non voglio che ci siano abbandoni. Ma voglio che tutti attraversino l’inferno per arrivare alla fine”. Che spiega tutto o forse assolutamente nulla. Ma comunque davvero difficile da capire…