Nei giorni scorsi  la Nado, l’Organizzazione nazionale antidoping, ha fermato e squalificato 14 ciclisti amatori ( sì amatori perchè anche se pedalano per professione tali vanno considerati) il più giovane dei quali ha 28 anni e gli altri un’età ricompresa tra i 35 e i 50 anni. Più o meno una “retata” che ha portato alla squalifica di agonisti stagionati che competono e vincono in gare che si fa fatica anche a considerare minori in un triste sottobosco tossico  di azzegarbugli del doping fai-da-te, di vorrei ma non posso, di falliti che faticano a stare in gruppo con i pro e a 40anni si scoprono re delle granfondo.
Difficile capire cosa spinga un cicloamatore a doparsi prima di una garetta di strapaese o di una pedalata la domenica mattina con gli amici. Quale sia la molla che scatta nella testa di chi decide di giocarsi la pelle per mettere la sua ruota davanti a quella di tanti altri tapascioni del pedale. Sì perchè di questo si tratta, perchè ci si può anche credere, illudere, ci si può atteggiare finchè si vuole ma un amatore resta un amatore e un professionista un professionista, mondi e distanti con garanzie mediche, prospettive e obbiettivi differenti.
Mondi distanti ma purtroppo vicini , perchè 14 ciclisti squalificati per doping sono un bel po’ di fango che viene gettato su tutto il movimento senza troppe distinzioni che fanno di tutta l’erba un fascio e vanificano gli sforzi degli ultimi lustri che fanno del ciclismo uno degli sport più controllati. Anzi lo sport più controllato.  La Federazione ciclistica italiana farebbe bene a tenerne conto. Farebbe bene a difendersi, magari citando per danni “lorsignori”, magari facendosi promotrice di un’azione che spinga gare, garette, granfondo ad abolire le (inutili) classifiche, magari introducendo ( anzi reintroducendo) una norma etica che vieti ai ciclisti con squalifiche per doping di partecipare alle gare amatoriali.
Anche perchè il doping tra gli amatori non è solo un folle porcheria, ma anche un bel costo che toglie risorse per i controlli laddove hanno davvero senso cioè tra i professionisti e tra i giovani che il ciclismo lo fanno sul serio. E’ una piaga fetente quella del doping tra gli amatori resa però  più drammatica dal rischio che l’uso di certe sostanze comporta quando è “fai-da-te”.  Ragionando per assurdo si può capire che un professionista faccia uso di doping. Vincere una gara importante, strappare un contratto importante, firmare per alcuni sponsor importanti in un certo senso possono farti svoltare vita e carriera. E quindi il gioco vale la candela.  Ma chi a cinquant’anni  prima di una salita si riempie di salbutamolo rischiando di collassare perchè lo fa?
Molta “robaccia” tra gli amatori gira anche per i retaggi di una sottocultura sportiva difficile da scardinare. C’è uno zoccolo duro che non vuole arrendersi che è cresciuto sportivamente così, che così ha allenato gli atleti e così ha educato i figli a cui ha fatto fare sport.  C’è un modo per uscirne?   Investire tutto ciò che può sui tecnici seri che spieghino nelle scuole, nei vivai e dove si allenano i ragazzi che c’è un’etica dello sport e che alla lunga premia. Che spieghino che con i farmaci ( quando non si è malati) si rischia la pelle. Che il doping è droga e crea dipendenza e che se uno la usa per far bene in una gara, poi magari comincia a farlo anche per superare un esame a scuola, per darsi coraggio prima di un colloquio di lavoro o anche per far bella figura con la ragazza.  Che si cominci a raccontare che si può vincere ma che si può anche solo partecipare. E che ogni tanto capita anche di perdere ma non è una tragedia. E la scorciatoia del doping  è solo per i falliti.