Basta con la fandonia dei mostri a orologeria!
È tutta questione di… malvagità.
43 anni, maschio italiano: il macchinista che ha accoltellato la figlia di soli 18 mesi, mentre la moglie è al mare con l’altro figlio. Lui le telefona dicendo che “ha fatto un casino”. La tragedia è accaduta vicino ad Ancona, a Collemarino.
Ed ora si dirà, ancora una volta, che si tratta di un mostro. Normale fino a ieri, prima di diventare mostruoso, come se tutti gli esseri umani potessero essere quello che appaiono e diventare improvvisamente qualcos’altro il giorno dopo. Eppure una certa psichiatria, attraverso i suoi eminenti esponenti, continua ad affermare che si tratta di accessi di violenza improvvisi e non prevedibili, di cui non sappiamo praticamente nulla.
Ora vi chiedo: ma perché questi atti di aggressione così violenti e devastanti non sono rivolti a persone che potrebbero eventualmente difendersi? Invece, gli attacchi sono sempre verso i più deboli: bambini o donne, queste ultime muscolarmente deboli, e portate a mediare e ad accettare “l’ultimo incontro” al di là di ogni prudenza. È la stessa domanda che si pone lo psichiatra Claudio Mencacci, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, il 18 agosto. Inoltre, egli spiega benissimo come sia insensato definire raptus questi episodi e come la psichiatria seria tenda a non utilizzare tale espressione.
Esistono dei sintomi precedenti alle forme di crudeltà, ossia dei segnali che possono aiutarci a comprendere che una persona sta alimentando in se stesso una violenza che prima o poi sfocerà in qualche atto inaudito, ma prevedibile, anche se non al 100%. Non dimentichiamo che nella storia della specie l’aggressione e la crudeltà sono stati utilizzati tanto per offendere, vincere e conquistare, quanto per difendere, proteggere e contenere. È dentro ognuno di noi questa forte impulsività reattiva, e va controllata, costruendo nella nostra mente e nel nostro ambiente occasioni per razionalizzare la nostra vita e quello che accade intorno a noi. Bisogna fare sport, abituarsi al dialogo costante e continuo con le persone che si amano, imparare a tollerare le frustrazioni, assumere la posizione degli altri, convincersi che non possiamo avere ragione, imparare ad ascoltare gli altri tacendo le proprie verità. E tutto questo, forse, accadeva una volta, quando di fronte a noi, a tavola, avevamo esseri umani con cui parlare e non la televisione solamente.
Ma oggi qualcuno non parla più di sé alla persona che dice di amare, e quando il rancore e la prepotenza che vivono dentro quella mente, alimentate dalle ingiustizie sociali che producono solo rabbia, si uccidono i più fragili, i più piccoli. Si può vivere eliminando le forme di violenza, la prepotenza e l’aggressione, perché la nostra mente è in grado di imparare qualsiasi cosa e l’amore si impara. Si viene educati a fare del bene, e solo quando questo accade possiamo davvero dirci di essere diventati equilibrati: quando eliminiamo e controlliamo il peggio di noi per esprime il meglio.
Il dolore, la violenza, il rancore, l’aggressività sono elementi che appartengono all’io, ossia alla dimensione personale dell’individuo e possono manifestarsi nel sé, quando si verificano quelle situazioni esterne che ne stimolano l’espressione. In sostanza, una persona aggressiva può apparire calmissima fino a quando non si verificano situazioni ambientali ed esterne che ne fanno esplodere tutta la malcelata furia. E questa esplosione è vulcanica quindi improvvisa e distruttiva, ma si costruisce lentamente, giorno dopo giorno, in modo latente (non per questo meno evidente), nascosta dietro un’apparente comprensione degli altri e del mondo esterno, ma in grado di alimentare quella sotterranea frustrazione che alla prima occasione emerge con tutto il suo impeto.
Secondo l’antropologia della mente, l’identità di una persona, qualsiasi persona, si forma nell’arco della vita intera, senza subire soste, nemmeno quando si va incontro a situazioni traumatiche importanti e molto coinvolgenti. Così come si costruisce il proprio io, si costruisce anche il proprio sé. Il primo corrisponde all’idea che ogni persona ha elaborato circa la propria identità, e come la persona si rappresenta agli altri, mentre il secondo è l’incontro di questa identità con le esigenze altrui, e con il mondo, col quale si viene a contatto quotidianamente. Dunque, in ogni persona convivono entrambi gli aspetti, che costituiscono gli elementi della struttura mentale di tutti gli individui. Ovviamente, vi sono altri fattori che fanno della mente la nostra mente, ma in questa sede sono importanti l’io e il sé.
Quindi, basta con le fandonie, perché questa non è malattia improvvisa, non è improvvisa espressione di un mostro, è invece odio covato lentamente dall’io e realizzato dal sé, secondo motivi che esistono davvero.