Gianni, il bello?
Dobbiamo andare molto indietro con la memoria, per ricordare chi sia Gianni Melluso. O, almeno, lo sforzo di memoria è nostro, ovvero di chi non è stato toccato direttamente dagli ignobili eventi che, nell’ormai lontano 1983, travolsero Enzo Tortora.
Melluso è colui il quale inventò (perché la storia ha dimostrato essersi trattato di pura invenzione) la vicenda secondo cui Tortora era un associato camorrista ed esercitava lo spaccio di droga. Tortora ha pagato queste imputazioni con il carcere e con la vita, mentre il suo accusatore, paradossalmente, non ha scontato un giorno di pena per questa infamia. E dico paradossalmente, perché è stato lo stesso Melluso a dire che a tali calunnie fu costretto da Giovanni Pandico e Pasquale Barra detto “o ‘nimale”, confermando l’infondatezza delle accuse lanciate a Tortora.
Lo scorso 6 marzo l’ex “picciotto” Melluso è stato scarcerato, dopo molti anni per una serie di reati e dopo la sua assoluzione, in grado d’appello, dall’accusa di esser stato il mandante dell’omicidio della sua ex fidanzata Sabine Maccarrone. Se questa sentenza verrà impugnata e, in questa eventualità, quale sarà l’esito del giudizio, lo vedremo. Per intanto, Melluso si dice pronto ad incontrare la famiglia Tortora per implorare, in ginocchio, il suo perdono. Gaia Tortora, figlia di Enzo, ha risposto: “Questo signore si faccia pubblicità in altro modo. Basta con queste trovate, anche la pazienza ha un limite. Certi personaggi andrebbero semplicemente ignorati“.
Perché ho deciso di scrivere su questa vicenda? Perché mi ha fatto riflettere sul senso del perdono e non solo sul senso della sua concessione, ma soprattutto sulla sua richiesta. Ricercare il perdono delle persone offese è un’istanza che appartiene alle viscere della natura umana. A meno di versare in uno stato patologico psichico impeditivo, oppure nella più totale amoralità, ogni uomo, in un certo punto del proprio sviluppo cognitivo, riesce a percepire il dis-valore delle proprie azioni. Lo percepisce per differenza, grazie al giudizio di valore positivo che, quello stesso uomo, distingue e riscontra ogni volta in cui egli stesso agisce in conformità alle regole di convivenza, proprie del suo nucleo sociale. Quindi, chiedere perdono equivale a dire: “Mia comunità, riconosco di aver trasgredito e di essermi autoeliminato dal gruppo; quindi, oggi, chiedo il permesso di rientrare nel gruppo”.
Ottenere il perdono significa recuperare la titolarità della posizione di chi appartiene ad una determinata comunità, per ripristinare la pienezza del contatto umano con chi fa parte della stessa comunità. In altre parole, con il perdono si riacquisisce, a livello individuale, la dimensione della socialità propria di ogni sistema di vita. Non ottenerlo equivale a continuare il proprio percorso al di fuori del gruppo di appartenenza, con una frustrante differenza. La persistenza di questo iter non dipende da un personale atto volitivo (omologo a quello con cui avvenne la trasgressione), ma dalla volontà di chi nega quel perdono. Ecco che, domandare perdono a chi ha ricevuto la grave offesa o il danno è un gesto che va lungamente ponderato, perché occorre essere in grado di sopportare le conseguenze, intime e durature, di un “no”. Quando si è fortemente meditato sul senso della richiesta di perdono, quest’ultima va formulata nel modo che maggiormente consenta di poter sopportare un eventuale rifiuto, e cioè sottovoce, senza perifrasi enfatiche.
Ho cercato, per quanto possibile, di immedesimarmi nei panni di una delle figlie di Tortora e mi sono chiesto cosa avrei risposto a Melluso. E, da cattolico uomo di scienza, la risposta non è affatto scontata. Dal mio punto di vista, il perdono è cosa divina, non umana. Siamo, sì, chiamati a rimettere i debiti ai nostri debitori, ma la completa remissione non è compito né prerogativa esclusivamente dell’uomo. L’uomo può perdonare secondo la percentuale della propria volontà di superare la grave offesa patita, sopportando tutti i coinvolgimenti emotivi che continua a percepire di fronte al trauma subito. Il resto della quota dipende da un intervento divino, e questa quota è quasi certamente maggiore, rispetto a quella prettamente umana.
Pertanto, il perdono che un uomo può concedere ad un altro ha senso solo se concesso con l’umana misericordia (che è una copia sbiadita di quella divina) ispirata da un atteggiamento intimamente e sinceramente pentito di chi chiede perdono. Inoltre, in quanto esseri umani, possiamo rimettere soltanto i debiti che qualcuno ha contratto con noi, in modo strettamente personale, per l’ovvia ragione che io posso accollarmi un debito altrui se lo voglio, ma, certamente, non posso mettermi al posto di un altro creditore.
Melluso avrebbe potuto implorare il perdono direttamente ad Enzo Tortora mentre tutto avveniva, in modo silente, concedendo a Enzo Tortora il tempo necessario per maturare la necessaria misericordia. Melluso avrebbe potuto mostrare di saper attendere, e mantenere fermo il proposito di pentimento, confidando nella capacità di perdonare, pregando perché il Padre desse a Tortora la forza necessaria. Allora sì, la richiesta sarebbe apparsa nella sua piena valenza e, ove accolta, il debito gli sarebbe stato rimesso da chi aveva titolo per farlo.
È anche vero che questo è il mio pensiero, di persona emotivamente estranea ai fatti, ancorché empaticamente toccata dai fatti stessi, come penso lo sia gran parte del popolo italiano. Per ognuno di noi esistono tempi di maturazione e di presa di coscienza personali, e ciò che una persona raggiunge in poco tempo, per un’altra persona richiede periodi più lunghi. Non possiamo, quindi e in assoluto, esprimere giudizi certi e precisi quando parliamo di coscienza personale, e sviluppo di tale coscienza. I tempi degli esseri umani, nella loro interiorità, non sono sindacabili da nessuno, e si dovrebbe sempre concedere l’onestà della sincerità, specialmente in queste intime operazioni di coscienza.
Certo, nello stesso tempo, nascono pensieri diversi, quando si tratta di un perdono chiesto pubblicamente, con modalità plateali, sul palcoscenico mediatico e in pendenza di un possibile terzo grado di giudizio per omicidio. Fa pensare molto più ad una mossa difensiva che ad un pentimento. E posso persino pensare che si possa chiedere perdono ad un figlio per il torto arrecato al padre, quando, a suo tempo non lo si è chiesto a quest’ultimo, se lo si fa, appunto, privatamente, in segreto.
Il perdono è chiesto in primis a Dio, per tramite della misericordia del fratello (a sua volta aiutato da Dio nel concederlo), in questi casi.
Questo mi sono risposto.