Embrioni modificati? Qualche riflessione
È tutta questione di… prudenza.
Prima o poi ci saremmo arrivati a modificare geneticamente un embrione umano.
È quello che emerge da questa importantissima ricerca, recentemente pubblicata su una rivista scientifica, che ci rivela come gli studi in questa branca del sapere, la genetica, siano all’avanguardia nel nostro oramai vicino, seppur lontano, Oriente.
Le motivazioni che spingono a ricerche di questo tipo sono effettivamente rivolte a debellare malattie che spesso condannano gli individui ad una vita triste e piena di sofferenze, quando tali malattie vengano scoperte dopo la nascita. Se vengono intercettate prima si pone la questione dell’aborto, con soluzioni private sulle quali non mi sento certo nelle condizioni di esprimere un giudizio universale e valido per tutti i casi e le coppie.
Ora, non voglio analizzare queste motivazioni, che sono peraltro scientificamente valide, ma piuttosto voglio riflettere su due aspetti propri del sapere scientifico:
a) la ricerca in sé, secondo la quale il ricercatore ha il compito di progredire nello studio e nell’indagine, lasciando il problema dell’applicazione delle conseguenze alla politica e alla cultura;
b) i propositi etici e morali dei ricercatori, alcuni dei quali possono essere sensibili a comportamenti megalomani, oppure legati al progressivo accumulo di ricchezza.
Ecco perché parlo di prudenza.
Ogni scoperta può diventare un’arma per uccidere, oppure occasione per migliorare la vita. Questo dipende, sostanzialmente, dall’accesso più o meno libero da parte dei cittadini del mondo ai benefici di quella scoperta. E noi sappiamo come funzionano le case farmaceutiche.
Come fare dunque per assicurare che queste scoperte portino effetti positivi? Un’idea potrebbe forse essere di assicurarsi che tutti i ricercatori sottoscrivano un protocollo di comportamento bio-etico e verificare che nel loro stile di vita alberghino atteggiamenti universalistici diretti al bene dell’umanità intera e non al loro portafoglio. Per esempio, un ricercatore che ceda alla “produzione”, ad un prezzo simbolico, i risultati della propria ricerca, per la quale comunque viene pagato regolarmente, è certamente espressione di una visione solidale, generale e migliorativa della propria professione. Questo atteggiamento dimostrerebbe la consapevolezza che la ricerca scientifica debba avvantaggiare i propri simili, senza nessuna esclusione.
Io, che credo fortemente nel ruolo delle Organizzazioni internazionali, suggerirei di attivare un confronto più serio su questioni di questo tipo all’interno delle accademie, delle università. Il rischio, altrimenti, è di procedere con una tecnologia che può asservirsi alle regole del più forte contro il più debole, come peraltro è sempre accaduto nella storia del mondo e della nostra specie.
È necessario che temi di questo genere entrino a far parte di un dibattito sociale e politico aperto all’interesse di un maggior numero di persone, e che vengano comunicate con particolare attenzione le scoperte scientifiche e le loro possibili conseguenze per il mondo intero.
E non basta pensare a conseguenze a medio e breve termine, oppure lasciare che sia una politica nazionale qualsiasi a proporre soluzioni attuabili solo internamente. E’ necessario pensare a lungo termine, sapendo che le nostre decisioni avranno conseguenze non solo su di noi, ma soprattutto sui nostri figli.