È tutta questione di… fragilità.

Sono spesso in giro per lavoro. Ultimamente percepivo qualcosa che mi rendeva triste. Come se fosse nell’aria. Eppure sono in un momento molto interessante della mia esistenza. Potrei dire che sono felice per quel che sono. Ringrazio sempre come buona abitudine, antica e che si rinnova sempre.

Questi ultimi giorni li ho trascorsi a Milano, città che ti porta con i suoi ritmi dal centro alla periferia per incastrare appuntamenti, riunioni e pubbliche relazioni. Una città che parla da tempo tutte le lingue del mondo.

Eppure, un comune denominatore, per me triste, presente a Milano come in tanti altri luoghi visitati di recente sono le macchinette da gioco. Quel rumore dietro una piccola parete dei bar, negli angoli delle attività commerciali in linea con il prodotto. Quindi, tranne gli alimentari, ovunque. La cosa che più pugnala il mio cuore è la vista di quei volti delle persone pronte a giocarsi tutto nella speranza di vincere. Persone nella mente delle quali si fa strada una distorta idea di fortuna, di gioco e si insinua, senza i necessari allarmismi che salverebbero, la dipendenza.

Antropologicamente la speranza è il segnale che la società sta elaborando un’idea comune di sviluppo, senza fare affidamento solo al singolo individuo, a se stessi, isolati e soli. La speranza, quando esiste davvero come temperie culturale, la si respira negli occhi delle persone, e la si percepisce nel modo di sorridere e salutare. La speranza non è un’idea teologica o filosofica, ma è un atteggiamento con il quale la nostra mente conosce il mondo e desidera cambiarlo in meglio.

Peccato questi giorni potevano essere per me tra i più belli della mia vita. In realtà, lo sono anche, ma si accompagnano a tanto dolore.

Meno male che mi resta salutarvi con amore.

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