Il Risorgimento italiano e il Decreto Sicurezza
È tutta questione di… contraddizioni.
Come moltissimi in queste ore, anch’io sto seguendo la vicenda dell’ “insurrezione” dei Sindaci di alcune importanti città e dei Governatori di Toscana e Piemonte contro il cosiddetto “Decreto Sicurezza”.
Non volendo entrare nel merito della sostanza legislativa e, quindi, della intrinseca giustizia od ingiustizia della legge (esistono organi dello Stato deputati a questo e, fortunatamente, non ne faccio parte), tuttavia ho interrogato sia la mia coscienza che le coscienze di alcuni amici giuristi. E l’ho fatto rispetto alla correttezza o meno del modo con cui questi amministratori locali hanno sollevato la questione della (per usare le loro parole) disumanità di questa legge.
Al termine della ponderazione e del confronto, sono giunto alla conclusione che la modalità seguita dai Sindaci e dai Governatori è in assoluta coerenza con le ragioni che hanno portato allo sfascio e alla rottamazione della sinistra in Italia.
La sinistra fa ed è cultura. Questo è il leit motiv in voga negli anni ’60-’70. Fermo restando che, a parer mio e pur con le loro differenti sensibilità, anche le altre forze politiche esprimevano larga parte di quel sentimento culturale (che ha caratterizzato la società italiana del dopoguerra), indubbiamente la spinta propulsiva veniva dalla sinistra progressista. Sto parlando del periodo berlingueriano che, con lungimiranza, guardava alla forza cattolica democristiana per attuare quella che, se non fosse stato per la morte di Moro, avrebbe veramente rivoluzionato la nazione. Lo avrebbe fatto culturalmente, sociologicamente e politicamente, dando all’Italia la forza interna idonea a polarizzare il terreno internazionale.
Un periodo in cui la sinistra intendeva la “politica” come estrinsecazione del pensiero e del “fare”, orientato verso la costruzione di un sistema sociale. La politica come “servizio”. E non si trattava di una visione ad esclusivo appannaggio della sinistra. Anche la Democrazia Cristiana mostrava lo stesso intendimento, sebbene perseguito con pro grammaticità e metodi diversi.
Moro muore nel 1978. Berlinguer morirà sei anni dopo. Negli anni ’80 inizia il cambiamento culturale italiano, con l’avvento delle tv commerciali e col declino di un’ideologia della politica, come strumento di partecipazione di massa alle vicende collettive e statali. La sinistra continua a pensarsi culturalmente autoreferenziale, come tutte le reginette del ballo. Arriva, però, Tangentopoli che scoperchia la parte marcia non già della politica (come capita spesso di pensare), ma della partitocrazia. Ed è proprio il pool di “Mani pulite” a metterci sotto il naso una cruda realtà: nessun partito italiano è immune dalla corruzione.
Ma la sinistra, non più sorretta dal nerbo berlingueriano e nel disfacimento dei partiti tradizionali, a vantaggio della nascita di nuove forze, continua a sentirsi culturalmente pura e superiore; forte della sua separazione ed alterità rispetto alla massa dei poveretti sforniti (secondo l’intellighenzia, al riparo nelle varie Capalbio sparse per l’Italia) di quegli strumenti culturali necessari a capire una realtà, che solo un intellettuale di sinistra poteva cogliere, analizzare, comprendere e guidare. Da qui allo scollamento con quella stessa realtà, il passo è stato breve ed ancor più breve è stato il passo dallo scollamento alla distanza siderale. E ciò è accaduto nel momento in cui l’avanguardia partitica della sinistra, ovvero i cosiddetti “dem”, ha subito il ricambio generazionale.
Sì, sto parlando dell’epoca renziana, che ha condotto, dritta dritta, alla scomparsa della sinistra in Italia. E sto parlando anche dell’epoca post renziana (cioè quella attuale), in cui il PD non vede che cosa accade al suo popolo. Non lo vede per due ragioni: la prima, perché guarda al suo ombelico e la seconda, perché torce la politica verso un uso che non è quello proprio e per cui, storicamente, la sinistra si era connotata. Ossia, non più “politica” come attività a servizio di una grande idea sociale, ma finalizzata, nel migliore dei casi, al consenso di sé stessa.
E ciò, in queste ore, è chiaro anche nell’ambito istituzionale territoriale. I Sindaci di sinistra (ed è un fatto oggettivo che i Sindaci insorti siano di sinistra) stanno utilizzando il metodo della disapplicazione di una legge, ovvero l’unico metodo assolutamente illegale.
Andiamo con ordine.
Il Parlamento ha approvato il“Decreto Sicurezza”. Il Presidente della Repubblica lo ha firmato. La sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale è avvenuta, ossia la sua entrata in vigore è cosa fatta. Dunque, il Decreto Sicurezza è legge formale dello Stato e, come dicono i giuristi, ha efficacia erga omnes, cioè è legge vincolante per ogni cittadino italiano.“Ogni” significa “ognuno”, ovvero “nessuno escluso”, neppure i Sindaci o i Governatori di Regione, i quali non hanno altra scelta che applicare la legge.
Bene. Scritto questo, cosa accade se a qualche Sindaco sorge il dubbio che quella legge abbia dei profili di ingiustizia sostanziale e/o di illegittimità formale e/o dell’una e dell’altra? Innanzi tutto, può ben darsi. Non tutto ciò che è giusto viene regolamentato mediante una legge formale, e non tutto ciò che è legale, in quanto previsto e disciplinato da una legge formale, può essere giusto. D’altro canto, giustizia e legalità non sono due concetti collimanti, ma di questo tratteremo in altra occasione. Tuttavia, quando un Sindaco ritenga che una legge presenti tratti di iniquità (e, soprattutto, se a ritenerlo è un Sindaco), ciò che non gli è affatto consentito è di tenere un comportamento apertamente trasgressivo nei confronti di quella legge. In questo modo i cittadini riceverebbero un semplicissimo ed unico messaggio: se una legge non mi piace, posso violarla.
E’ un messaggio equo, legittimo, educativo, sostenibile ? Assolutamente no, anzi è deleterio.
Ma tutto ciò sembra proprio non importare. Siccome la disapplicazione di una legge ha l’effetto sonoro di un potente “gancio”, a corta distanza sulla faccia del Governo, disapplichiamo. Ecco, la sinistra sta usando la politica per fare rimbombo e rimpolpare un po’ di quel consenso ormai perduto, seguendo la stessa strada che l’ha condotta a perdere la gran parte del suo elettorato, ossia il distacco dalla realtà. Attenzione però: lo scollamento dalla realtà, talvolta, diventa patologia oppure è l’effetto di una patologia!
Due sole cose avrebbero dovuto fare i Sindaci di sinistra per far valere i propri dubbi. Applicare il Decreto Sicurezza e, contestualmente, o porre un quesito all’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), affinché quest’ultima esprimesse un proprio parere circa la giustizia o l’ingiustizia del Decreto Sicurezza; oppure, presentare, in religioso silenzio mediatico, ricorso alla Corte Costituzionale, ed attendere l’esito, in altrettanto religioso silenzio, continuando ad applicare il decreto sin quando la Corte non si fosse pronunciata.
Qui non si tratta di sopprimere il diritto di un amministratore locale di censurare idealmente una legge. Si tratta di capire che trovarsi al vertice amministrativo di Comuni importantissimi come Palermo, Firenze, Napoli, Reggio Calabria, etc., significa indossare la fascia tricolore, ovvero utilizzare la politica a servizio dei cittadini. E si tratta di farlo nell’unico modo possibile, all’interno di una Repubblica democratica e parlamentare, ossia osservando le leggi sin quando non vengono abrogate dal Parlamento o dalla Corte Costituzionale.
Si tratta di capire che la sinistra non può scegliere la strada della disobbedienza legislativa, perché così facendo insegna ai cittadini a disobbedire. Si tratta di tornare alla politica come servizio dell’idea, e non di un gruppo partitico con l’acqua alla gola in vista delle elezioni europee.
Il dissenso mi piace. Il dissenso è confronto, dibattito, vita, evoluzione. Un antropologo non può, per sua formazione, optare per la staticità.
Ma se il dissenso cortocircuita un’entropia, allora preferisco la palude.