Votare in Europa?
È tutta questione di… cognizione di sé.
“A me che qualcuno dia del burattino in una sede istituzionale internazionale al Presidente del Consiglio del mio Paese mi fa notevolmente incazzare. Comunque la si pensi”. Così ha twittato Carlo Calenda (persino lui!) alle ore 07:53 del 13 febbraio scorso, all’indirizzo del vergognoso exploit di Guy Verhofstadt, dinanzi al Parlamento Europeo, allorché ha definito “burattino” il nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Verhofstadt esordisce dicendo che parlerà in italiano suscitando, tra il sorpreso ed il benevolente, il sorriso dei parlamentari. Questa si chiama captatio benevolentiae. L’ouverture prosegue con la sottolineatura delle ragioni di questa scelta linguistica. Con la sua claudicante pronuncia, l’europarlamentare informa gli astanti che “a parte il mio proprio paese, ancora e ancora, Presidente Conte, io sono innamorato dell’Italia e degli italiani”. Quell’“ancora e ancora” è pronunciato in un duplice e significativo gesto: gli occhi che guardano al di sopra degli occhiali e la mano sinistra alzata in modo fermo. Una gestualità ed una ridondanza verbale che dissimulano il vero senso della frase che è: “possiamo essere innamorati dell’Italia ancora per un po’ e nonostante tutto”. Il discorso continua rammentando, con ostentata ammirazione, il valore culturale dell’Italia. Come a ricordare al nostro Presidente del Consiglio, ove mai se lo fosse dimenticato, lo spessore della sua nazione.
Verhofstadt va avanti in un crescendo di elogi al nostro Paese. Eleva i toni, diventa carezzevole, stabilisce il perimetro dell’ideale grandeur italiana. E poi, d’improvviso, la pars destruens, ossia la pessima politica italiana iniziata venti anni fa con Berlusconi e culminata nella diade Di Maio–Salvini, e l’elencazione di quei loro comportamenti ritenuti politicamente incongrui agli occhi dell’Europa. Infine l’affondo: “(…) e allora la mia domanda per lei Presidente Conte è per quanto tempo ancora sarà il burattino mosso da Salvini e di Maio!”.
Discorso ipocrita, supponente e vergognoso, ma certo tipico di una certa formazione ideologico-culturale. L’ipocrisia si manifesta nella scelta dialettica. Ha usato l’italiano, ha fatto appello al luogo comune dei grandi fasti culturali dell’italianità. Con la scusa di enucleare le capitali italiane della grandezza italiana, ha dileggiato Napoli utilizzando un detto tipicamente nostrano: ”Vedi Napoli e poi muori”.
L’offerta di una pars construens nella nostra madrelingua e composta da un’antologia dei tipici luoghi comuni italiani, aveva due scopi. Il primo, comunicare al Presidente Conte un solo messaggio, ossia: ”parlo la tua lingua, uso il tuo fraseggio perché tu comprenda a fondo”. Il secondo, porre le basi dialettiche per utilizzare il termine “burattino”, nel senso metaforico che noi italiani gli attribuiamo.
Verhofstadt ha parlato in italiano perché fosse chiaro che, deliberatamente, intendeva offendere il Presidente del Consiglio dei ministri italiano nella più alta sede istituzionale europea.
La gogna, il ludibrio pubblico perpetrato da un Parlamento sovranazionale in danno di una delle cinque alte cariche di uno Stato fondatore di quel Parlamento ha sdoganato l’atteggiamento veramente razzista (e qui è il caso di dirlo) di una oligarchia europea nei confronti del governo italiano che, non ripudiando l’appartenenza dell’Italia all’Europa, contesta la pre-potenza economico-finanziaria di quella oligarchia affamata di sudditi, e non di partner pari ordinati. Verhofstadt non ha reso un buon servizio alla causa europea. Anzi, direi che è riuscito a dimostrare ampiamente come i nervi di queste servili persone siano davvero a fior di pelle, e che, dunque, sia proprio questa la strada giusta da percorrere. E la soluzione sarà una fra le due possibili: o cambia nella sostanza questa Europa politica, nella sua realtà esistenziale verso i Paesi che la compongono e continuano a volerla, oppure finirà. E non certo bene, prevedo.
Il re è nudo, evidentemente.