Finiremo così?
È tutta questione di… miseria.
Da qualche giorno, noi italiani abbiano un motivo importante per sentirci una spanna (ed anche più) avanti rispetto alla tanto amata genialità nord europea.
Con una sua recentissima pronuncia, la Corte Suprema Britannica ha stabilito che è sufficiente la convergenza di intenti tra equipe medica e familiari di un paziente, per interrompere anche la somministrazione delle sostanze nutritive che lo tengono in vita. Non c’è che dire! Un capolavoro ornamentale del diritto e dell’etica che, sotto le mentite spoglie della tutela della qualità della vita del malato, consente anche (o soprattutto?) di fare cassa allo Stato.
Eh sì! Perché pare che la sanità britannica non possa più sostenere i costi di lungodegenza, durante i lunghissimi e numerosissimi contenziosi sul fine-vita dei pazienti ai quali si vorrebbe “staccare la spina”. D’altro canto, la Brexit ha un costo esorbitante e, da qualche parte, bisogna cominciare a risparmiare. Quale migliore campo se non quello delle vite umane ormai non più utili a nessuno, nemmeno a se stesse?
Ho già espresso la mia opinione di uomo di scienza ed anche di fede in occasione della sorte inflitta al piccolo Alfie.Tuttavia, stavolta desidero evidenziare un altro aspetto della questione, che si manifesta solo con questa pronuncia della Corte.
Nell’onestà intellettuale che tento di mantenere, dobbiamo evitare ogni forma di talebana cecità dinanzi al fatto che molte persone preferiscono porre fine alla propria vita, anziché portarne avanti una in stato vegetativo. Di solito, queste persone sostengono che il valore “Uomo” si estrinseca soltanto finché quell’uomo gode di un livello di dignità personale accettabile, anche nella malattia. E quando questo livello base di dignità viene meno, allora è giusto che la persona possa autodeterminarsi come desidera.
Ma c’è un “ma”. Ed è relativo a quei casi in cui il paziente si trova in condizioni di incoscienza.
Se non ha preventivamente espresso in maniera certa ed inequivocabile la propria volontà di porre termine alla propria vita, come può, la legge, consentire che quella volontà mancante possa essere surrogata da un accordo raggiunto tra un team medico ed i familiari del malato? È un concetto aberrante sul piano giuridico prima ancora che etico perché, in buona sostanza, si contravviene al principio, che vale in ogni sistema normativo non dittatoriale, per cui il singolo ha diritto ad autodeterminarsi. Infatti, ogni singolo uomo, nell’esercizio delle proprie abilità cognitive essenziali, è dotato di coscienza (e, quindi, di capacità rappresentativa degli eventi ) e di volontà (ossia, di capacità di porre in essere atti idonei al perseguimento di un qualsiasi evento).
Ed allora, sebbene non ne ritenga condivisibile l’impostazione ideologica di fondo, mi sento felice di appartenere ad uno Stato che non ha lasciato queste decisioni, in frangenti tanto delicati, a un cumulo di cervelli che ragionano (e il termine è esagerato, lo so !) sul destino finale della cotenna altrui. E’ senz’altro una legge imperfetta, a tratti claudicante e non felice nelle espressioni, ma, almeno, quella sul testamento biologico è demandata alla volontà di ciascuno di noi di disporre del proprio fine vita.
Non siamo obbligati a farlo, ma, se vogliamo, abbiamo lo strumento giuridico per esprimere i nostri desiderata, cosicché ogni trattamento da effettuarsi nelle fasi terminali della nostra vita, soprattutto se in stato di incoscienza, è frutto di un nostro personalissimo atto di autodeterminazione. Non è affidato ad alcuno, ma è manifestato in forma espressa (non tacita o presunta) e consegnato all’autorità pubblica, che lo raccoglie e lo conserva secondo le regola di tenuta degli atti pubblici.
Vogliamo mettere a confronto le due visioni, la nostra e quella tanto democratica inglese? Due concezioni assolutamente imparagonabili, per levatura etica e civiltà giuridica. Accade sempre più spesso che noi italiani ci dimostriamo degni eredi della nostra grande storia e tradizione civile.
E sono occasioni, queste, di indubbia fierezza.