Violenza e coscienza
È tutta questione di… avidità.
Poche parole per raccontare l’inizio dell’orrore di Stefano Cucchi.
Un pestaggio cominciato deliberatamente e proseguito con altrettante coscienza e volontà. Uno schiaffo, un calcio, con la punta della scarpa assestato all’altezza dell’ano, e una spinta gettano a terra Stefano, che viene raggiunto prima da una botta alla testa, e poi da un calcio in faccia. Di queste efferatezze il carabiniere Francesco Tedesco, coimputato nel processo denominato “Inchiesta bis”, ha accusato due suoi colleghi, anch’essi imputati nel medesimo procedimento penale.
Tralasciamo ogni considerazione circa il fatto che la narrazione è avvenuta a distanza di nove anni dalla morte del giovane. Su questa circostanza, come su ogni altra afferente il caso, spetterà alla magistratura far luce.
Ma ciò che profondamente tocca le coscienze di chi legge, anche soltanto gli stralci giornalistici di quel verbale d’udienza sono due fatti. Il primo, l’efferatezza delle azioni, stando alle dichiarazioni del coimputato. Non paghi di aver gettato un proprio simile a terra a suon di colpi violenti, due esseri umani proseguono nel pestaggio, con la furia cieca di chi ha completamente perduto il senso del limite. Proviamo a chiudere gli occhi ed immaginare il rumore che produce un cranio che sbatte a terra. E, subito dopo, immaginiamo il dolore provocato da un calcio in pieno volto. Uniamole due sensazioni (quella del rumore del cranio a terra ed il dolore del calcio in faccia), pensandole immediatamente successive una all’altra, ovvero nella stessa sequenza in cui le ha vissute Stefano Cucchi. Non possiamo farlo. La percezione che i nostri neuroni specchio ci trasmettono è così fortemente dolorosa da non risultare sopportabile alla nostra mente.
Ma lui le ha vissute nel suo fisico minuto. E questo è stato solo l’inizio del suo calvario perché è arrivato ad esalare l’ultimo respiro dopo aver riportato la frattura della mascella, il rientramento di un occhio, lesioni all’addome, al torace, alle gambe, due fratture alla colonna vertebrale, un’emorragia alla vescica. Oltre ad una compressione al catetere vescicale così forte che, dal suo cadavere, sono stati svuotati qualcosa come 1400 cc di urina. Come possiamo definire questi atti? Hanno un nome preciso? Lascio a voi trovare i termini, perché io non ne conosco di così aderenti ai fatti che ho appena riportato. Certo, so che esistono queste parole: “Le tre disposizion che ‘il ciel non vuole, Incontinenza, malizia e la matta bestialitade”, utilizzate da Dante, nel Canto XI dell’Inferno.
Il secondo fatto, al solo soppesarlo, ci annichilisce. Gli autori di questa carneficina non sono persone che, al momento dell’accadimento, si trovavano in uno stato di coscienza alterato. Niente affatto. Si trattava di persone, al momento, assolutamente sobrie e non affette da patologie mentali perenni o transitorie. E che sembra abbiano agito con la piena coscienza del valore degli atti che stavano compiendo, compresa la volontà delle conseguenze che quegli atti avrebbero cagionato. E non basta, quelle persone si trovavano nell’esercizio della funzione pubblica propria del carabiniere, e nell’espletamento dei compiti di custodia di persona sottoposta a temporanea restrizione della libertà personale. Siamo così in presenza di una violenza fisica, perpetrata sino alla morte del destinatario, da chi, per statuto, è deputato alla tutela dei cittadini.
Non ci dimentichiamo che il Cucchi era stato arrestato per essere visto cedere a certo Emanuele Mancini, una confezione trasparente in cambio di una banconota. Portato in caserma, è stato trovato in possesso di un quantitativo complessivo di 21 grammi di hashish, 3 dosi di cocaina ed una compressa antiepilettica perché il ragazzo soffriva di epilessia. In quel momento, Stefano Cucchi era uno spacciatore alto 162 cm per 43 Kg di peso. Uno spacciatore, certo. Anche quand’anche fosse stato qualcosa di peggio, il compito degli uomini di Stato si limitava ad assicurarne lo stato di arresto, in attesa dell’udienza di convalida. Qualunque sia il tipo di reato, prima facie (e, lo ripeto, prima facie) commesso, nessun organo dello Stato è abilitato a compiere violenza sul corpo della persona arrestata. Questo accade in un Paese civile. E noi, italiani, crediamo ancora di vivere in un Paese civile. Il nostro ordinamento, figlio intellettuale e normativo di Cesare Beccaria, rinnega qualsiasi ricompensa statale violenta, di fronte a qualunque reato ipotizzato od accertato, persino rispetto ad una sentenza passata in giudicato. Dobbiamo, dunque, fare appello ad ogni singola nostra cellula volitiva, per mantenere salda ed intatta la doverosa fiducia e l’immutabile rispetto che dobbiamo alle istituzioni militari, ossia a coloro che sono deputati dallo Stato alla tutela di noi tutti.
Un fatto è certo. Se, nel corso di questo processo, venisse raggiunta la prova dei fatti narrati da Francesco Tedesco, lo stesso Stato dovrebbe mostrare la forza che gli Statuti di epoca comunale (stiamo parlando di qualcosa come 600 anni fa circa) riservavano a cariche pubbliche che si rendevano colpevoli. A parità di reato, chi rivestiva una carica pubblica riceveva una punizione più grave di quella comminata ad un privato cittadino, perché più alto era lo status istituzionale rivestito. E dunque maggiore doveva essere la responsabilità delle proprie azioni.
Solo così si salvaguarda e si mantengono integri la credibilità, l’affidabilità e la fiducia degli uomini di Stato, ossia verso coloro che lavorano per la salvaguardia e la tutela dei cittadini. Uomini e donne che agiscono con alto senso del dovere e del sacrificio personale a vantaggio della comunità tutta.
Quella che loro stessi decidono di tutelare, altrimenti è meglio che vadano a fare altro. Si può servire molto bene un qualsiasi Stato, comportandosi da normali cittadini.