Quando la Chiesa è futuro
È tutta questione di… naturale Provvidenza.
Dalla scorsa domenica 14 ottobre 2018, Papa Paolo VI è Santo.
Molto si è scritto e letto su Papa Montini, e sul suo ruolo. Sia in relazione ai pontificati dei Papi Pio XI, Pio XII e Giovanni XXIII, nelle loro posizioni sulla Seconda Guerra Mondiale, i rapporti con il nazismo, con il fascismo e le forze alleate. Altrettanta attenzione ha suscitato la figura di Paolo VI nell’ambito del Concilio Vaticano II, e delle sue importanti riforme, quale l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, della burocrazia curiale, della elezione papale e della liturgia.
Poco o nulla si sa del Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini politico, la cui caratura di vero statista si apprezza nel Discorso tenuto dal Santo Padre Paolo VI alle Nazioni Unite, il 4 febbraio 1965.
Si tratta di un discorso che, oggi nell’anno 2018, non colpisce certamente per gli accenti lirici che il Papa usa nei confronti delle Nazioni Unite come Istituzione. Il contesto storico dell’epoca, quello della guerra fredda, vedeva il sodalizio intellettuale e politico tra il blocco occidentale e la Chiesa, sodalizio in virtù del quale quest’ultima, con le medesime parole, esaltava l’ONU e, al contempo, lo ammoniva per il futuro. Del resto, erano ancora lontani i tempi per il ruggito di scomunica di Papa Wojtyla e per le stoccate gesuitiche, in tono ora sarcastico, ora amorevole di Papa Bergoglio.
Era ancora il 1965.
Il vero portato di questo discorso sta nella visione di Paolo VI, è il carattere solidaristico che ogni dimensione sovranazionale e sovra statuale deve avere. Una visione che, oggi nell’anno 2018, manca all’intero assetto del Vecchio Continente e che, alla vigilia delle lezioni europee, le istituzioni e la troika dovrebbero possedere per statuto.
Il 4 febbraio 1965 Papa Montini si rivolge alle Nazioni Unite definendole “Assemblea”, dal francese assembler, che si traduce con “assembramento”. Non un assembramento inteso come riunione sporadica di soggetti, bensì come centro di stabile tutela e collegamento: “un ponte fra i Popoli”. La cui chiamata, proseguendo con le parole di Paolo VI, è quella di “affratellare non solo alcuni, ma tutti i Popoli. Difficile impresa? Senza dubbio. Ma questa è l’impresa”. Un’Assemblea i cui Stati componenti non sono tutti uguali, ma si fanno uguali perché solo così si concretizza quell’umiltà che sconfigge il “colonialismo dell’egoismo”.
Non operare gli uni contro gli altri, ma lavorare gli uni per gli altri. In un tempo storico relativamente lontano dall’avvento del web e dall’attuale concetto legato al “fare rete”, il Santo Padre guardava con lungimiranza all’Assemblea, appunto come “rete di rapporti fra gli Stati”. Un concetto, quello della rete, basilare nella concezione politica di Paolo VI. Non dimentichiamo che, ben prima della sua ascesa al trono di Pietro, Papa Montini è stato, forse, il primissimo tra i consacrati ad essere inviato a visitare, in nome e per conto della Santa Sede, tutte le terre conosciute ed i loro abitanti.
Nel quadro sovranazionale dipinto dal Santo Padre, la rete fra i popoli è teleologicamente orientata ad instaurare “un sistema di solidarietà” che non soddisfa solo il bene comune, ma anche quello dei singoli, ed il cui volto è quello della sacralità e della dignità della vita di ciascun uomo. Si tratta di una concezione di Antropologia Teologica, all’interno della quale l’idea di creatura, e dunque di relazione con Dio invisibile, si rende visibile nel legame fra i popoli, le culture e le diversità. Rete, solidarietà, bene comune e bene individuale. Queste sono le parole chiave della cooperazione internazionale, promossa in un consesso istituzionale formato da Nazioni, alle quali il Papa ha cura di precisare: “Voi non conferite certamente l’esistenza degli Stati, ma (…) date un riconoscimento di altissimo valore etico e giuridico ad ogni singola comunità nazionale sovrana, e le garantite onorata cittadinanza internazionale”.
Come vediamo, il Santo Padre è ben lontano dal riconoscere ad un Organismo Internazionale, seppur di massimo livello come l’ONU, il diritto al giuridico riconoscimento costitutivo di un’autorità statuale. E ciò è perfettamente in linea con l’intima giustificazione della forma di governo della Chiesa Cattolica, ovvero il fatto di porsi come una teocrazia originaria ed assoluta.
In realtà, ciò che al Papa preme riaffermare è una serie di fattori politici ben precisi e ravvisabili nella corrispondenza biunivoca tra i concetti di “comunità” e “nazione”, ossia nel carattere “sovrano” di ogni comunità nazionale, nella necessità che ogni comunità nazionale (e sovrana, appunto) debba far parte di una rete tra Stati non destinata ad una sepolcrale autoreferenzialità. Bensì chiamata all’adempimento, nei confronti di ogni comunità aderente, di un preciso obbligo di garanzia: far sì che le venga tributato lo status internazionale.
Di straordinario valore prospettico è il passaggio in cui il Santo Padre, paragonando l’Assemblea ad un edificio, ammonisce che quest’ultimo “non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà”. In queste pochissime e misuratissime parole è raccolta la potente attualità di messaggio che, oggi nel 2018, l’Europa non comprende e puntualmente disattende. Un ente sovra statuale, sovranazionale non dev’essere monade immutabile e, quindi, insoluta, ma un organismo nel senso fisiologico del termine, ovvero un ente dotato di quel politico dinamismo adattivo, figlio dell’efficiente mutamento antropologico.
Direi che alla vigilia di un appuntamento elettorale così importante per tutto il nostro continente, le parole di Papa Paolo VI, oggi Santo, possono illuminare il cammino verso una scelta consapevole.