Una vera povertà italiana
È tutta questione di… poesia.
Recentissimi studi hanno dimostrato che, in ambito europeo, l’Italia è al quarto posto in graduatoria tra i paesi afflitti dal prematuro abbandono giovanile degli studi.
Fuor dai denti aguzzi del sentimentalismo e con grande senso pratico, si tratta di una notizia che non deve procurare rammarico, né stupore e preoccupazione, oppure ancora senso di colpa. Questi sono tutti stati d’animo che proviamo con lo sguardo rivolto al passato: mi rammarico di qualcosa che non ho fatto, mi stupisco di qualcosa che ho visto e… così via.
No. Ciò che questa notizia suscita è un sentimento attuale, è disgusto.
In un’epoca in cui le persone fanno la fila per giorni dinanzi ai grandi stores per acquistare l’ultimo iPhone, il fatto che le difficoltà economico-sociali costituiscano la prima causa di abbandono degli studi da parte dei nostri giovani deve farci provare la sensazione fisica di un ripugnanza, seconda solo a quella del reflusso gastroesofageo. È il segno dell’enorme forbice sociale tra chi è depresso perché non vede altro da possedere se non ciò che, con i propri denari, abbia già fatto suo, e chi è davvero sotto la soglia della povertà. È il sintomo dell’impotenza delle istituzioni, e del fallimento educativo delle istanze repubblicane, che non hanno saputo (e sempre meno sanno) adempiere all’art. 34 della nostra Costituzione, dove si legge “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Può, il diritto, essere poesia? Nel senso comune del termine no, ovviamente. Ma l’art. 34 è poesia nel senso classicista. Dal verbo greco poièo, che indica l’azione del fare e del produrre, la poesia è una generazione verbale in versi, che suggestiona ed ispira l’animo umano. Ed è così, con la poesia, che il verbo antropologico oltrepassa gli schemi grammaticali e sintattici correnti, acquistando quell’altezza concettuale e quel valore ideale che contiene.
Ecco, è in questo senso che quella norma di rango costituzionale diventa poesia. Perché apre le finestre del sapere ai non abbienti e crea la convinzione di poter contare su un orizzonte formativo lontanissimo. Instilla la fiducia che ogni cittadino italiano “possa”, a prescindere dalla sua condizione sociale ed economica, tutto il possibile permesso dalla cultura e tradizione di uno Stato. Lo rassicura, perché gli dice anche che “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”. Poesia nell’ideale e prosa nell’attuazione.
Nel settantesimo anniversario della Costituzione, siamo quarti in Europa per abbandono degli studi da parte dei giovani disagiati.
Qualcuno ha tradito il programma costituzionale. Una folta schiera di politici insipienti e ingordi, ai vertici delle istituzioni ha tradito, consegnando le attuali generazioni all’oscurantismo di una alfabetizzazione culturale elitaria, antidemocratica nella germinazione e oligarchica nei frutti. Chiediamoci perché uomini così lontani, così agli antipodi tra loro come Pasolini e Don Giussani credevano tanto fermamente nel valore dell’istruzione.
“D. Era importante per te l’affermazione scolastica? E perché? R. Sì, molto. Proprio per quei valori che mi aveva insegnato mia madre: la serietà, l’applicazione, l’entusiasmo per il sapere”. Così rispondeva Pasolini in un’intervista.
“Di tutto quello che si deve dire sull’educazione, a noi importano soltanto questi punti.1. Per educare occorre proporre adeguatamente il passato (….)2. Seconda urgenza: il passato può essere proposto ai giovani solo se è presente dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore(…)3. La vera educazione deve essere un’educazione alla critica… Sempre in greco, questo «rovistarci dentro» si dice krinein, krísis, da cui deriva «critica»”. Ecco l’eredità di Don Giussani.
Esperienze, vite, assetti culturali opposti hanno reso Pasolini e Giussani intellettualmente vicini, nello spessore attribuito allo strumento fondativo della cultura, ossia l’istruzione. Che non è soltanto un diritto, ma anche il dovere di un lascito e il privilegio di quel potente viatico che trasforma l’erudizione in sapere.
Quel tanto che dovrebbe bastare, affinché da padri dell’Umanesimo e delle Scienze esatte, non dovessimo più pensarci barbari per indigenza.