Omicidio di Stefano LeoÈ tutta questione di… fragilità.

Premetto che non provo nessuna umana pietà nei confronti di Said Mechaout, l’uomo che il 23 febbraio scorso ha ucciso Stefano Leo.

Tuttavia, non giudico; lascio che una giustizia superiore lo faccia. Se ne parlo è soltanto perché, da antropologo della mente, vorrei capire i meccanismi mentali che inducono un uomo a togliere la vita ad un altro uomo, specialmente quando, alla base del gesto omicida, v’è una motivazione etichettabile, a tutta prima, come “razziale”.

La prima domanda che mi sono posto è se, effettivamente, la ragione di questo omicidio sia razziale. Un accenno di risposta si trova stabilendo un parallelismo tra la storia di Said Mechaout e quella di Luca Traini. Quest’ultimo è un giovane uomo di 28 anni di età, bianco, caucasico, di media scolarizzazione. Segni particolari: porta tatuato, sulla tempia destra, il simbolo di Terza posizione. Aderente a posizioni politiche proprie della destra radicale, tenta la strada dell’impegno politico con un risultato pari a zero.

Questo giovane balza agli onori della cronaca per avere aperto il fuoco, in maniera randomizzata, su alcuni extracomunitari per vendicare Pamela Mastropietro, a sua volta barbaramente uccisa da un immigrato. A raid conclusosi, Luca Traini si consegna alle Forze dell’Ordine, non prima di essersi avvolto nel tricolore ed aver gridato, col saluto romano, “Viva l’Italia”, dinanzi al monumento ai Caduti di Macerata.

Sin dal primo momento del suo arresto, Luca Traini ha affermato di avere agito per vendicare la giovanissima Pamela. In buona sostanza, un uomo bianco vendica la morte di una donna bianca, uccisa da un uomo di colore. Infatti, i reati contestatigli sono aggravati dai motivi di odio razziale. Il gesto è sembrato subito così folle, da far pensare che, al momento del gesto, Traini non fosse capace di intendere e di volere. La perizia psichiatrica eseguita su di lui ha stabilito, al contrario, che il giovane era in grado di rappresentare a se stesso le proprie azioni, il loro valore, ed era anche in grado di autodeterminarsi al compimento degli atti criminosi posti in essere. Tuttavia, la perizia ha cura di precisare che, sebbene capace di intendere e di volere, Traini presenta dei “tratti disarmonici della personalità”.

Ad un anno di distanza dai fatti di Macerata ci troviamo davanti a Said Mechaout. 27 anni compromessi da scelte (od occasioni, non sappiamo…) di vita fallimentari, e che lo conducono a trovare ricovero in un luogo per chi è senza tetto e senza un lavoro. Un giovane che, prima, pensa di uccidersi e poi matura rabbia e voglia di vendetta. Said acquista una confezione di coltelli a basso costo, sceglie quello più grande, va a sedersi su una panchina dei Murazzi sul Lungo Po Machiavelli, ed attende pazientemente. Attende che, dinanzi a lui, passi non una persona qualsiasi, ma una persona precisa. “Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età. (…) L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano”.

Attendeva quello che noi italiani definiamo “un bravo ragazzo e di buona famiglia”, dall’aspetto sereno, all’apparenza privo di problemi, e portatore di quelle aspettative verso al vita che solo la giovane età può dispensare. Ad un certo punto, il bravo ragazzo si è materializzato davanti agli occhi di Said, che decide di ucciderlo con un fendente al collo perché muoia subito. Lo uccide così, esattamente come aveva programmato. Poi è tornato al dormitorio. Attende un mese prima di consegnarsi e, nell’atto di farlo, dice: “Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le speranze e i progetti che aveva, toglierlo ai suoi amici e parenti” – e prosegue – “Madre natura stava cercando di farmi uccidere e allora ho pensato io di uccidere. Ho detto che potevo far pagare a Torino quello che è di Torino”.

Cos’hanno in comune Luca Traini e Said Mechaout?

Tre cose evidenti: la stessa età, l’odio razziale, la capacità di pianificare e portare a compimento un progetto criminoso. Un cosa è meno evidente però, il disagio psichico che, di per sé, non elimina né affievolisce la capacità di intendere e di volere, così come non giustifica né giuridicamente né eticamente i fatti da loro commessi. A dir la verità, neppure spiega la ragione dei loro crimini. Ma è, senz’altro e secondo la mia visione, un elemento fattuale che accende un enorme faro sulla natura delle nuove generazioni.

27-28 anni sono un’età in cui una persona sente di essere sul punto di considerare conclusa la propria giovinezza e di approssimarsi ad una nuova fase della vita, ovvero quella della vera costruzione del proprio mondo e dell’assunzione di responsabilità. Fino alla soglia dei trenta anni, viviamo le aspettative, sappiamo che siamo esseri in fieri, che gettano le basi per il futuro. Il nostro must (per dirla all’inglese e come i giovani amano…) è attuare le aspettative. Giunti a circa trenta anni, si apre il periodo del consolidamento di ciò che si è seminato dopo i 20. Le aspettative personali di base, quali la serenità di fondo ed il lavoro, devono essersi attuate od essere in procinto di attuarsi. È a questo punto della vita che si dà una cornice a se stessi, valutando i risultati ottenuti nell’età formativa.

Il punto è che se i risultati ci sono e sono valutabili positivamente, il trentenne si incammina verso il processo di maturazione, con la concreta consapevolezza e speranza di lavorare su buone fondamenta per la costruzione del suo avvenire. Se i risultati non ci sono, oppure non sono suscettibili di considerazione positiva, il trentenne si avvia verso la maturità, con la percezione di un dolore interiore che, se non elaborato, non solo si evolve negativamente, ma si cronicizza verso forme di impotenza, rabbia, desiderio di vendetta. Verso la ricerca di una rivalsa contro la collettività, indistintamente considerata.

Tutto ciò si trasforma in quel che, comunemente, definiamo “disagio psichico” e che, oggi, accomuna Luca e Said. L’impossibilità di vedere un futuro, ci fa odiare coloro che, apparentemente, sembrano avere prospettive di un futuro ottimo e certo, perché si ritiene che la differente nazionalità od il colore della pelle conferiscano loro posizioni economico-sociali di favore.

Si badi bene: l’odio razziale nutrito da Luca Traini e da Said Mechaout è esattamente identico perché specularmente inverso. Un bianco odia i neri extracomunitari perché, secondo lui, in Italia l’immigrato nero è trattato in maniera migliore di un bianco italiano. Un nero di cittadinanza italiana, per adozione, odia i bianchi italiani perché, a suo modo di vedere, in Italia l’essere bianco consente quella felicità che il nero italiano non può nemmeno sognare.

Ed allora, un compito si impone alla famiglia, come nucleo primordiale ed alla scuola come nucleo formativo secondario: insegnare che la felicità, se esistente, non deriva dall’appartenenza ad una specie, ma dalle scelte che il libero arbitrio ci fa compiere, nella valutazione delle occasioni che la vita stessa ci pone di fronte. Lo fa con tutti, anche se in misura, tempi e modi diversi. In tutte le geografie, più o meno ricche o povere. Certo, senza occhi e mente adeguata non ci si accorge di nessuna occasione. E l’attenzione alle occasioni, anche le minime, si impara, da ciò che ci insegnano in famiglia e da ciò che ascoltiamo a scuola da coloro che ci impartiscono gli elementi di qualsiasi disciplina.

E una delle nozioni primarie che possiamo apprendere in famiglia e a scuola è la consapevolezza che possiamo sempre lavorare su noi stessi, per emanciparci quando il destino non ci ha fatto nascere dentro una Rolls Royce, e da madre coperta di diamanti ed ermellino.

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