Ci salveranno gli androidi
È tutta questione di… invisibilità.
Può accadere che con l’arrivo di un nuovo videogioco, riaffiorino interrogativi antropologici mai sopiti. Detroit: Become Human, questo è il suo nome. Ha per protagonisti alcuni androidi asserviti alla razza umana. Ad un certo punto della loro esistenza, alcuni di essi vivono l’esperienza dell’emersione della coscienza di sé, e scoprono di avere terrore della morte, di provare sensazioni e sentimenti umani. In modo peraltro più accentuato degli umani stessi.
Il giocatore, coinvolto con il tatto, la vista e l’udito, può vivere, per immedesimazione, i sentimenti della scoperta, della sorpresa, l’ansia dell’ignoto, la bellezza del contatto tra individui e con le macchine. E proprio entrambi, individui e macchine, condividono la stessa esperienza, perché vivono lo stesso gioco.
Da un punto di vista tecnologico, tutto ciò non ci stupisce. Oramai, siamo abituati ai giochi di ruolo interattivi. Ma il tratto nuovo di “Detroit” è che non mette in scena una guerra tra esseri di razze diverse, ne manca infatti l’aspetto violento e prevaricatorio. Non offre alcuna rivalità tra bene e male, e manca l’effetto ricompensa, per aver giocato il ruolo del “giusto”.
“Detroit” è un viaggio nella riscoperta della mentalità umana legata all’aspettativa, alla paura, e alla condivisione di un destino comune, ovvero quello di diventare un essere senziente, esattamente come l’Uomo, scegliendo, tra quelli possibili, il destino che più aggrada. Quasi in modo naturale, mi si affaccia una domanda: perché qualcuno (vale a dire gli ideatori del gioco) ha pensato di indurre il pubblico a riscoprire la genesi delle emozioni umane e dei sentimenti, facendo vestire al giocatore i panni di un androide anziché di un uomo?
La risposta è, al tempo stesso, banale e disarmante.
Perché la globalizzazione comunicativa ci ha portati sul binario di una strisciante omologazione emotiva. Direi, una omogeneizzazione generalizzata della mente, in quasi tutte le sue manifestazioni empatiche, solidaristiche e di gruppo. Quotidianamente e, quasi con metodicità, siamo esposti alle immagini ed alle notizie che riguardano ogni forma di violenza e sfruttamento, a carico non solo di qualunque genere vivente sul pianeta, ma anche della Natura. Ogni giorno, abbiamo la percezione visiva della menzogna, del sotterfugio, dell’approssimazione, del menefreghismo che pervade ogni manifestazione umana in ogni angolo della Terra.
Siamo assuefatti e raramente riusciamo a percepire l’anormalità di una realtà ormai deragliata.
Si è andato lentamente perdendo quel sentimento di immedesimazione che i nostri genitori devono aver provato quando, per la prima volta nella storia della televisione italiana, le immagini del terremoto del Belice sono entrate direttamente nelle case degli italiani, con tutto il carico emotivo di distruzione e morte.
Ecco, questo è il senso della necessità antropologica di calarsi nei panni di un androide.
La comprensione – favorita dalla tattilità e dalla percezione oculare – di un mondo emozionalmente ateo, nonché l’immedesimazione con esso, favorisce una specie di shock empatico, quando il giocatore-androide inizia a “sentire”, a provare un’emozione, a vedersi come un essere che può sviluppare il sentimento del sé.
Come si dice: in amore e in guerra tutto è permesso. Certamente non si tratta di una guerra, ma della riscoperta del significato profondo della nostra essenza umana, vissuta anche con l’antitesi dell’umano. Ogni mezzo per capire che dovremmo riflettere su noi stessi, e la nostra funzione antropologica è sempre più necessario, specialmente in questo nostro strano andare senza sapere esattamente dove.