Uccisa ancora
Morire perché l’aver proposto 12 denunce per maltrattamenti e minacce di morte è servito a nulla. Perché nessuna denuncia è stata seguita da atti di indagine.
Non procedere al sequestro del coltello con cui l’omicida aveva preventivamente minacciato la sua vittima, “dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile”, ovvero perché la convinzione così profonda di uccidere avrebbe spinto a munirsi di un altro coltello. Non disporre l’interrogatorio del minacciante, perché non gli avrebbe comunque impedito di uccidere dato, che l’essere interrogato gli avrebbe soltanto fatto capire “di essere attenzionato dagli inquirenti” (taccio sul termine “attenzionato”, che trovo bruttissimo… ma usa molto in Sicilia, un po’ come il verbo “uscire in relazione al cane, ossia “esci il cane”). Nessuna perquisizione a casa del minacciante, perché non avrebbe avuto effetto. Nessun arresto del minacciante, perché la scarsa gravità dei suoi comportamenti minacciosi “non consentivano l’applicazione della misura cautelare”. In sostanza, nessun atto di indagine si sarebbe rivelato utile, perché “l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato”.
Sembra la trama di uno psicodramma sul paradosso e, quindi, una narrazione fantastica.
Invece no. E’ la sentenza con cui la Corte d’Appello di Messina, in integrale riforma della sentenza di primo grado, ha stabilito che la Presidenza del Consiglio dei Ministri non deve rispondere, in via risarcitoria, nei confronti dei figli di Marianna Manduca. La donna uccisa a coltellate dal proprio marito Saverio Nolfo, nonostante la poveretta avesse sporto ben dodici denunce nei confronti di quest’ultimo.
Secondo la Corte, l’iter di indagini tenuto dalla Procura di Caltagirone (all’epoca territorialmente competente) fece quel che poteva, in considerazione del fatto che, in quel periodo storico, ancora non esisteva una legge contro lo stalking. Secondo la Corte “il marito l’avrebbe uccisa lo stesso”.
Detto in soldoni, Marianna era predestinata a morire di morte violenta per mano del marito e, quand’anche la Procura di Caltagirone avesse dato seguito alle denunce depositate, l’intervento della giustizia non avrebbe potuto sottrarre Marianna al suo destino. Di conseguenza, oggi, i figli di Marianna debbono restituire allo Stato quella somma che il Tribunale di primo grado aveva riconosciuto loro a titolo risarcitorio.
Che cali il sipario dello sconcerto!
In un colpo solo, questa sentenza ha: a) legalizzato l’idea di “predestinazione”; b) partorito il concetto di “inevitabilità dell’omicidio”;c) sdoganato il principio di “impotenza dello Stato davanti ad un irresistibile ed invincibile proposito criminoso”. Ebbene, ogni sentenza non nasce da sola. E’ il frutto di una ponderazione umana dove, per “umano”, si intende il/i soggetto/i aventi funzioni giudiziarie, ovvero la magistratura.
La riflessione che questa vicenda mi suscita è la seguente.
Come antropologo della mente, il sottoscritto ha piena ed effettiva coscienza e consapevolezza dell’incisività della sua azione intellettuale nella società. Quando mi accingo a scrivere un libro, un articolo oppure a parlare in pubblico, so perfettamente che le mie parole sono destinate ad un incontro elaborativo con i cervelli delle persone che leggeranno i miei scritti, od ascolteranno i miei interventi. Come docente universitario, ho completa coscienza che il mio ruolo istituzionale comporta una duplice assunzione di responsabilità: a) nei confronti dell’Università di cui faccio parte, e b) nei confronti dei miei allievi, dal momento che il metodo di insegnamento ed il merito di ciò che insegno debbono formare i miei studenti.
In entrambi i casi, sia come antropologo che come docente, so che la trasmissione a terzi delle conoscenze tecniche che ho acquisito non avviene in ambiente sterile. E non lo è perché la trasmissione da parte mia è, inevitabilmente, filtrata dal mio modo di essere, dalla mia personale elaborazione e (perché no?) dalla personale interpretazione dello strumentario tecnico di cui dispongo. Ecco perché nello scrivere, nel parlare, nell’insegnare so di dover tenere conto della funzione pedagogica che è propria della scienza che certo di praticare, anche con fatica.
Un docente universitario deve adottare un metodo molto oculato affinché l’impronta personale non si spinga oltre un certo limite, perché agli studenti non devono giungere concetti tecnici ed intellettuali deragliati dal loro alveo naturale. Un intellettuale deve scrivere e parlare al suo pubblico tenendo conto che, sì, l’imprinting individuale è molto gradito, specie quando è provocatorio, ma non si deve arrivare mai a formare, nei lettori ed ascoltatori, la percezione dell’assenza di limiti. In altre parole, l’accademico e l’intellettuale debbono avere coscienza dell’impatto sociale prodotto dall’esercizio della propria funzione.
Se questo è vero per un docente e per chi svolge un ruolo culturale nella società, a maggior ragione vale per chi amministra la giustizia. Amministrare la giustizia non significa soltanto conoscere le leggi ed applicarle al caso concreto. Significa anche avere la percezione che il provvedimento con cui si amministra giustizia verrà recepito da un consesso sociale. Certamente, non si chiede che un magistrato debba “modellare” il proprio dictum a seconda del momento storico in cui si trova, ma è almeno esigibile che quel magistrato tenga conto degli effetti che alcuni principi riconosciuti, ammessi, legalizzati, sdoganati in quel dictum procurano socialmente.
La sentenza d’Appello riguardo il caso di Marianna Manduca dice alla donna italiana (e dunque a tutti noi, maschi e femmine, giovani e adulti, single ed accoppiati, e cosi via…) che è perfettamente inutile denunciare l’uomo che la minaccia. Se questi ha deciso di ucciderla, lo farà, a prescindere dagli strumenti che la giustizia possa mettere in campo per prevenire l’omicidio. Questa stessa sentenza afferma e sostiene che qualsiasi maschio che abbia concepito il fermo proposito di uccidere una donna, lo farà perché, messi a confronto con la sua forte volizione omicida, i mezzi di cui la giustizia dispone sono solo armi spuntate.
Ecco, per moltissimi concorsi pubblici, lo Stato esige che i candidati si sottopongano a test psicoattitudinali, nell’ambito dei quali rientrano i testi psicometrici, ovvero test attitudinali, di abilità e personalità. Si tratta di strumenti, sì standardizzati, ma che si fondano sul concetto di retrospettività e, quindi, fanno emergere tanto il portato dell’esperienza vissuta da un individuo quanto l’attitudine al suo “fare” nel presente. Sono utilissimi, perché consentono di comprendere il grado di percezione che un soggetto ha di sé, del suo ruolo e del suo concreto operare. In poche parole, riescono a misurare il livello di autoconsapevolezza, nell’esercizio delle proprie azioni, sia come persone che come probabili professionisti nel settore disciplinare per il quale si concorre. Sono strumenti importanti, per il datore di lavoro e per la società tutta, con i quali ci si tutela di fronte ad assunzioni ed azioni che possono rivelarsi sconcertanti.
Mi sono preso la briga di osservare il c.d. “Decreto 10 ottobre 2018 – Concorso, per esami, a 330 posti di magistrato ordinario” pubblicato sul sito del Ministero della Giustizia. Le prove concorsuali si articolano in tre elaborati scritti (uno in diritto civile, uno in diritto penale ed uno in diritto amministrativo), una prova orale, che verte su dieci specie di diritto, ed un’altra per una lingua straniera. Tra i “requisiti per l’ammissione al concorso” si legge che il candidato deve essere “fisicamente idoneo all’impiego cui aspira”. Tra le dichiarazioni che i candidati devono rendere v’è quella di “essere fisicamente idonei ad esercitare l’impiego cui aspirano”. Ecco, chi si avvicina alla carriera di magistrato, per l’esercizio di una delle funzioni che non è solo tra le più alte di uno Stato, ma anche tra quelle che maggiormente identificano la cultura di una Nazione (perché il diritto è cultura, non dimentichiamolo mai, per favore…) può essere anche paraplegico e, quindi, non disporre di ottima costituzione fisica.
Però ciò che non deve assolutamente difettagli è la piena, effettiva e, soprattutto, certificata autocoscienza dell’impatto che l’esercizio della funzione giudiziaria ha nella società, della valenza pedagogico-comportamentale di cui i provvedimenti giurisdizionali sono dotati. Per certificarla occorre intervenire durante i corsi di preparazione al concorso in magistratura e anche in sede concorsuale, con l’introduzione degli appositi test psicoattitudinali, che offrono indicazioni elevatamente affidabili di comprensione del sé e del sé nella collettività.
Forse un tempo le cose erano diverse, ma non ne sono certo. Sentenze di questo genere sono comunque indizi importanti sul come sta andando il nostro mondo sociale. Sarà il caso che lo Stato impari a salvare, in vita, i propri membri, anche se questa mia ultima considerazione non cancella la tristezza profonda che motivazioni simili procurano nel mio cuore.
E la mente pensa ciò che il cuore sente.