I padroni del PD
È tutta questione di… politica.
Bene. Zingaretti è Segretario del PD da poco tempo e già le acque nel suo partito si agitano. E non si agitano sui programmi da sottoporre all’elettorato (ci mancherebbe! Mai!), bensì sulle personalità-guida del PD.
Che dire? Se questo dibattito circa il “chi deve guidare” venisse dal basso, dalla base del partito, sarebbe un segnale di reviviscenza della sinistra. Significherebbe fermento delle idee, fucina di scelta. Ma non è così. La dialettica intorno al valore personale del “condottiero” è interna al Gotha del PD, serpeggia tra i capofila. In una parola, è calata dall’alto, come accade da parecchi decenni, mi sembra. La base è una mera destinataria ricettizia dei confronti tra gli egotici al vertice. In questo senso si coglie l’ammiccamento di Sala volto a conquistarsi la posizione di leader.
Lo fa in modo sottile, sornione, con un sottesa interrogazione retorica che porge, scontatamente la risposta: “Non so se il messaggio di apertura che porto avanti io a Milano sarebbe comprensibile anche allargando la scala al Paese”. In sostanza, Sala sta chiedendo al popolo della sinistra sia di valutare il suo operato a Milano, e lo fa sapendo di aver piuttosto ben operato in quella città, sia di porsi l’interrogativo se il “paradigma Sala” possa proficuamente essere esportato in tutto il Paese.
Sala è l’uomo del sostegno al gay pride, dell’apertura all’immigrazione e promotore attivo dell’antirazzismo, dei forti addentellati imprenditoriali nella Milano che intende realizzare progetti strutturali di ampio respiro. Sala riesce ad abbracciare lo zoccolo della piramide sociale e, nello stesso tempo, anche il mondo commerciale e bancario. È perfettamente consapevole del suo peso specifico ed è per questo che induce il Segretario del PD a non trascurarlo, anzi, lo ammonisce così: “la vera sfida, e Zingaretti lo sa meglio di me, verrà dopo, quando bisognerà allargare il fronte del centrosinistra”. Il messaggio è chiarissimo. Sala intende mettere Zingaretti di fronte al fatto che il PD in generale e i suoi capi e capetti non potranno fare a meno di lui.
Ne sto parlando perché, ancora una volta, gli uomini di punta del PD ci dimostrano che non c’è speranza. A pochissime settimane dal voto europeo, nessuno di loro ha uno straccio di programma da sottoporre al proprio elettorato né a quello che, pur vicino alla sinistra, ne ha preso le debite distanze nell’epoca renziana. Niente da fare. Il PD non riesce proprio a comprendere che sin quando non focalizzerà l’attenzione, la mente ed il cuore sulle problematiche del tessuto sociale ed economico italiano, gli elettori non avranno una sola motivazione per votare a sinistra.
L’importante, per il partito, è sempre stabilire i rapporti di forza, confrontarsi su chi conta più e chi conta meno, chi ha più propulsione contrattuale e chi non ce l’ha proprio. In una parola, nel PD impera il personalismo della specie più inutile, dato che sta diventando sempre più poliedrico, smaccato, estraniante. Anziché coesione nel partito, intorno ad uno spendibile programma elettorale e di governo, assistiamo a fazioni divise, a seconda del gentile di buona stirpe che si propone al comando.
Si dice che non ci sia peggior sordo di chi non vuol sentire. Aggiungo che la sordità è uno stato, spesse volte, modificabile.
Certo, bisogna volerlo.