Ci vuole una destra più sana
È tutta questione di… evoluzione.
Ho atteso a scrivere quello che leggerete.
Penso, però, che sia venuto il momento di ragionare sulla temperie culturale che comincia ad essere pesante, opprimente e negativa. E mi riferisco alla possibilità di esprimere le proprie idee, le proprie convinzioni senza suscitare reazioni di aggressività spropositata, decisamente viscerale. Eppure, sembra che l’imperativo categorico kantiano sia quello di produrre odio, anche quando con pacatezza si difendono situazioni esistenziali emarginate, sottovalutate, ma vantaggiose certamente a coloro che le procurano.
La sinistra italiana è al macero. Divisa e suddivisa in mille personalismi, totalmente allo sbando e senza nessuna credibilità, se non quella prodotta ad hoc dai media, che sono sostanzialmente a suo libro paga. Le tematiche sociali, quelle legate al riconoscimento dello sforzo che ogni italiano compie, per esempio, per conquistare la posizione sociale che si addice alle proprie fatiche, sono state quasi completamente abbandonate. Si pensa, giustamente, all’odio comunicato, mentre si lascia perdere quello prodotto da una immobilità sociale e culturale che sta diventando sempre più evidente, soffocante e debilitante.
E, in questa situazione, cosa fa la destra? Si compatta, grazie anche a questo sfaldamento a sinistra. Ma si compatta attorno a quale narrazione di futuro? Mi sembra che la sua narrazione sia solamente nazionale, confinata all’interno di un perimetro che non esiste più, nel caso fosse mai davvero esistito: la nazione Italia. Indro Montanelli diceva che esistono gli italiani, ma non esiste l’Italia, e che i primi sarebbero sempre stati vincitori, in qualsiasi parte del mondo si fossero recati. Ed è ancora sostanzialmente vero, mentre i labili sentimenti nazionali sono confusi con l’idea di territorio politico, e promulgati assieme all’idea che qualcosa ci sia prima o dopo. In realtà, la complessità mondiale nella quale viviamo pone problemi che non hanno una loro successione cronologica, ma si presentano in contemporaneità. Ed è questa sincronicità che non si vuole accettare, e da lei stiamo fuggendo, perché solo così riusciamo a nascondere la polvere sotto il tappeto dell’esistenza globalizzata.
Che fare? Dovremmo produrre, ancora prima del consenso, un dialogo costante e continuo con il mondo dell’innovazione tecnologica, con le problematiche internazionali per sviluppare quella coscienza antropologica che oggi manca, e in nome della quale esprimiamo odi e incomprensioni a scopi elettorali. Dovremmo ricercare un dialogo, davvero sentito nel profondo della nostra identità, con le nostre contraddizioni, sviluppando il coraggio di abbandonare i cattivi maestri attuali e del passato.
Karl Raimund Popper diceva, parafrasandolo, che una buona scuola la si riconosce dalla capacità di lasciare a casa i cattivi maestri.
Ecco, sarebbe l’ora di farlo, tanto a destra quanto a sinistra. Continuare a parlare di nazione senza collocarla in una dimensione internazionale non ha letteralmente senso, se non quello di alimentare la miopia necessaria per scrivere una croce sulla scheda, al momento opportuno.
Santa Madre Teresa di Calcutta ci ricorda che il “povero non ha solo fame, ma ha una fame terribile di dignità”, e, da questo punto di vista sono molti, tantissimi, i poveri umani adulti e meno adulti.
E, intanto, i giovani ci abbandonano.