È tutta questione di… bellezza scientifica.

Anche gli animali sono innovatori, esattamente come noi che abbiamo imparato a volare nel 1904, grazie ai fratelli Wright, oppure abbiamo inventato il Web, grazie all’ingegno di Tim Berners Lee.

Un esempio eclatante per tutti, di come l’innovazione avvenga anche nel mondo animale è quello delle cornacchie giapponesi che utilizzano il passaggio delle automobili per aprire le noci. Il guscio delle noci è troppo compatto, e le cornacchie non riescono a romperlo con il becco. Lasciano quindi le noci sulla strada, affinché le auto ci passino sopra, per poi recuperare il gheriglio quando il semaforo diventa rosso e il traffico si ferma.

Esiste un tratto biologico comune a noi esseri umani che impariamo imitando ed innoviamo come fanno gli altri animali. Le specie più capaci di innovazione, così come gli animali che fanno maggiore affidamento sull’imitazione, possiedono un cervello insolitamente grande, sia in termini assoluti sia in rapporto alle dimensioni corporee. La correlazione tra tassi di innovazione e dimensioni del cervello è stata inizialmente osservata negli uccelli.

In un secondo momento, gli stessi risultati si sono replicati nei primati. In effetti, le attuali ipotesi a questo proposito sostengono che al nostro più voluminoso cervello sia associato un complesso di caratteristiche correlate fra loro. Per esempio, una crescita più lenta nei diversi periodi dell’infanzia, una maggiore durata della vita, e una maggiore partecipazione dei padri e dei nonni alla crescita dei figli, come collaboratori delle madri. Dal punto di vista evolutivo, infatti, la crescita del cervello dopo la nascita implica la presenza di eventi significativi ulteriori, post natali appunto, che costituiscono il fondamento di ulteriori processi cognitivi.

Processi che avvengono così in un ricco contesto sociale ed ecologico.

Per spiegare questi fatti, si è fatta strada l’ipotesi della spinta culturale (cultural drive), per la prima volta proposta negli anni Ottanta dal biochimico Allan C. Wilson, dell’Università della California a Berkeley. Wilson sostiene che la capacità di risolvere problemi, oppure di imitare le innovazioni altrui, costituisce un vantaggio per gli individui, nella lotta per la sopravvivenza.

In un primo tempo, la comunità scientifica ha dimostrato un certo scetticismo al riguardo. In effetti, la domanda fondamentale era: “Se i moscerini della frutta, con il loro microscopico cervello, erano perfettamente in grado di imitare, perché una selezione a favore dell’imitazione avrebbe dovuto generare un cervello proporzionalmente molto più grande come quello dei primati”?

La questione è rimasta insoluta per anni, fino a quando è giunta una risposta, tanto intuitiva quanto basata su studi di informatica. La selezione naturale non stimola né favorisce un aumento dell’apprendimento sociale, ma una tendenza verso il suo miglioramento, per cui gli animali non necessitano di un cervello grande per imitare, ma ne hanno bisogno per imitare sempre meglio. La questione qualitativa diventava così il modo per interpretare la funzione della spinta culturale.

Ora, in questa nazione, oltre alla spinta culturale di zio Covid-19, di cosa avremmo bisogno?

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