È tutta questione di… ragionevolezza.

Nella storia evolutiva della nostra specie, durante la caccia al cinghiale, l’inseguitore doveva fare A (fare A: esercitare una funzione) e il compagno, con la lancia, doveva fare B.

Queste norme comportamentali erano imparziali (e, anche attualmente nella caccia al cinghiale accade esattamente la stessa cosa, anche se al posto della lancia abbiamo il fucile), nel senso che specificavano quello che ciascun compagno doveva fare, per svolgere in modo adeguato il proprio compito. Così, lo scopo sarebbe stato raggiunto insieme e con successo. I ruoli, ciascuno con regole imparziali, e note a entrambi per definire le prestazioni collaborative necessarie, erano intercambiabili.

Di conseguenza, ciascun partecipante alla caccia merita il bottino allo stesso modo, a differenza dei disonesti e degli approfittatori, che appunto non contribuiscono al successo di tutti i cacciatori.

Ecco perché, ancora oggi, scegliere un compagno per uno sforzo collaborativo, significa trovare un individuo all’altezza del proprio ruolo atteso, in grado di condividere in modo equo il bottino.

Per ridurre il rischio insito nella scelta del partner, gli individui che si trovavano nella fase iniziale della eventuale collaborazione potevano fare appello alla loro capacità di cooperare. Così, assumendo un impegno comune (ecco, come nasce il contratto), promettevano di rispettare quello che ci si aspettava da loro nei rispettivi ruoli, compresa una divisione equa del bottino.

Nello stesso tempo, come ulteriore impegno (quindi come scenario innestato), i futuri e possibili compagni potevano promettere (implicitamente oppure esplicitamente) che chiunque avesse rinnegato quell’impegno si sarebbe meritato la disapprovazione del gruppo.

Questa dinamica interpersonale conduce ad un ulteriore passo importante.

Chiunque avesse deviato da quello che ci si attendeva e non avesse voluto mantenere uno status positivo nella collaborazione, si sarebbe sottoposto ad una specie di autocondanna, successivamente interiorizzata nella psiche come senso di colpa.

Emerge così una moralità basata sull’idea che il noi primeggia rispetto all’io.

Dunque, nella collaborazione, il noi del gruppo opera ad un livello superiore, rispetto all’individuo, regolando reciprocamente le azioni dei partner. Il risultato è una moralità in seconda persona, ossia la formazione di adattamenti umani in favore di uno sforzo collaborativo, per la ricerca di cibo. Una relazione caratterizzata dalla tendenza a relazionarsi con gli altri con un sentimento di rispetto e di equità, fondato su una valutazione “naturale” di sé stessi e degli altri.

Questo senso di equità è tutt’oggi rafforzato dal sentimento del dovere, cioè dalla pressione sociale a collaborare e a rispettare il compagno.

In sostanza, tutti i primati avvertono la necessità di perseguire i propri scopi individuali, affinché si raggiunga il successo. L’interdipendenza che governa la vita sociale dei primi esseri umani aumenta la pressione a trattare gli altri come meritano di essere trattati, attendendosi di essere trattati dagli altri nello stesso modo.

Anche se queste qualità sociali non sono complesse come quelle odierne, possiamo comunque ritenere che su questi atteggiamenti si fondano, ossia su due delle qualità più importanti del vivere sociale, il rispetto e l’equità.

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