È tutta questione di… consapevolezza.

Non dico nulla di nuovo, né di particolarmente originale, specialmente di questi tempi, se scrivo che stiamo attraversando un periodo davvero importante della nostra evoluzione generale, come specie Homo sapiens sapiens.

È anche relativamente vero che in ogni epoca e luogo, sia della storia che della geografia umana, si sono avuti periodi e situazioni in cui si è avvertita netta la sensazione di attraversare importanti momenti di passaggio.

Antonio Machado ci ricorda, in effetti, che siamo come un viandante in questa vita: “Viandante, sono le tue orme il sentiero e niente altro. Viandante, non c’è sentiero, diventa sentiero l’andare” (Machado A., Viandante).

E se aderisco a questa concezione del movimento, mi rendo conto che le mie azioni sono determinate dal moto del mio andare, ossia dalla consapevolezza del fine ultimo. Attuo, per così dire, una realizzazione teleologica del mio esistere, ossia reputo che il perseguimento dello scopo, di cui abbiamo parlato prima, diventi effettivamente la mia meta.

Affinché l’intera mia esistenza sia un errare come ci consiglia Machado, è però necessario che la mia meta non sia facilmente raggiungibile e sia il più possibile presente anche dopo la mia morte. Se invece la meta è raggiungibile con l’adozione di comportamenti facili e repentini, non solo il mio ragionamento sull’esistenza si riduce a qualche cosa che trovo al supermercato, ma le mie azioni non entrano a fare parte della storia del mondo. Agisco solo per me, e dopo la mia morte tutta la fatica che ho impiegato per rispondere ai perché che interrogano il mondo non sono serviti a nessuno.

È necessario che la mia meta sia dunque difficile, posta oltre la mia presenza fisica, ossia situata persino oltre la mia morte, affinché sino alla fine della mia vita io possa continuare a perseguirla. È necessario, in altri termini, che la mia meta preveda un percorso doloroso per raggiungerla, perché senza questo frammento di dolore non saprò mai e sino in fondo quale valore possiede la mia meta, quale significato attribuirle.

Solo quando percepisco la meta come sostanzialmente diversa da quello che io sono in questo momento, oppure da quello che io sono come essere umano, cercherò di raggiungerla davvero con tutte le mie forze.

Se il fine ultimo di questo mio esistere è nell’essere qui ed ora, solo coscientemente, non posso lavorare per l’eternità, come dice spesso un mio maestro e amico, Vittorio Vanni.

Se non mi percepisco diverso rispetto all’eterno, ma lo nego, considerandolo agnosticamente lontano dalle mie preoccupazioni mentali, tutte le mie azioni finiranno con la mia vita, perché ad essa sono indissolubilmente legate.

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