È tutta questione di… sacralità.

Durante l’intera nostra esistenza, la mente funziona e agisce con lo scopo di elaborare un’opinione quanto più precisa possibile di se stessi: noi esistiamo anche per capire chi siamo e cosa ci stiamo a fare in questo mondo.

Se dovessimo eliminare questo obiettivo, la nostra vita sarebbe qualcosa di decisamente insulso, inutile e, praticamente, soltanto tempo perso.

Fortunatamente non è così.

Ogni nostra azione nasconde il tentativo di conoscerci meglio, grazie alle intenzioni che ci inducono all’agire e alle conseguenze che tali azioni procurano, in noi e intorno a noi. E tutto ciò sembra articolarsi in base a un ragionamento semplice, e interessare soltanto la parte superficiale della nostra coscienza, perché siamo propensi a credere che le azioni utili siano quelle che ci permettono di raggiungere scopi precisi, in grado di migliorare cose concrete e pratiche, che fanno parte della nostra vita.

Ma non è così, o meglio questi risultati riguardano soltanto gli aspetti esteriori del nostro agire, mentre quelli interiori, più profondi e significativi, rimangono legati al desiderio di sapere chi siamo e dove andiamo. Certo, sono risultati di cui notiamo le tracce quando spesso tutto è accaduto, quando la nostra vita si trova a un punto in cui crediamo di aver dato agli altri e a noi stessi tutto il possibile, quasi fossimo liberati da un peso esistenziale gravoso.

È come se l’evoluzione alla quale siamo soggetti sapesse meglio della nostra volontà quando è il momento migliore per raccogliere i frutti delle nostre fatiche, sia quelle invisibili, forse in numero maggiore, che quelle visibili, in quota minore.

Ecco che, in questo modo, la nostra esistenza tende a configurarsi come un susseguirsi insistito delle stesse domande, poste a età diverse, alle quali seguono risposte sempre nuove, nonostante qualche elemento di queste risposte rimanga immutato nel tempo.

Si tratta di domande che affiorano con una certa insistenza, anche se a intermittenza variabile, specialmente in alcune circostanze importanti della nostra esistenza. Potremmo definire topiche queste occasioni evolutive oppure liminali, come “(…) malattia, morte, eventi traumatici, innamoramento, vissuti estatici, sventure, trionfi, ma possono manifestarsi anche in situazioni più ordinarie: nel mezzo di una passeggiata, o in un pomeriggio noioso, durante la lettura di un romanzo, la visione di un film o l’ascolto di una canzone pop” (P. Costa, 2015, Introduzione, in A. Comte-Sponville, Spiritualità per atei. Cosa resta quando si rinuncia alla fede, EDB, Bologna, p. 11).

Si giunge così, lentamente, a rendersi conto che la nostra giovanile pretesa di autonomia, originalità ed esclusività fa parte di un mondo immaginario nel quale siamo vissuti dall’infanzia sino all’adolescenza inoltrata.

E questo è dovuto al fatto che ciò che pensiamo di noi dipende in larga misura da quello che gli altri pensano di noi, anche se, specialmente in questo periodo, si ha la sensazione che siano ancora troppo pochi coloro che sono giunti a queste conclusioni.

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