È tutta questione di… cognizione di sé.

Spiegare e capire la banalità ha costituito una meta importante per le conquiste scientifiche occidentali.

Siamo partiti da Galileo per giungere ad Einstein, passando da Isaac Newton, Pierre-Simon de Laplace e Marcelin Berthelot, sforzandoci, anche con successo, di inseguire la complessità per ridurla a semplicità. Con Déscartes, Auguste Comte e il circolo di Vienna, è iniziata l’era che dalla complessità arriva alla semplificazione, attraverso la convinzione che tutto nel mondo sia una successione di cause ed effetti.

Nel seguire questa convinzione, ossia credere che la ragione sia in grado di individuare le leggi che si celano dietro la complessità della realtà, senza esserne del tutto consapevoli, abbiamo reso mediocre il meraviglioso.

Personalmente ritengo che l’essere umano, nella sua tendenza a realizzare questa operazione di riduzionismo esistenziale e naturale, abbia, ad esempio, relegato anche l’anelito verso il divino, presente in tutte le culture umane finora scoperte e studiate, alla sfera della pura fantascienza.

Si è detto per anni, e qualcuno continua a ripeterlo, che la scienza avrebbe scoperto i misteri più reconditi della vita, della mente e dell’animo umano, grazie alla sperimentazione.

E seguendo per secoli questo percorso, che in un certo senso gli stessi scienziati contemporanei si sono trovati a supportare senza alternative, si è allontanata sempre di più l’idea di una complessità irriducibile, cioè di una complessità che non possiamo semplificare e tanto meno indagare.

Ed ora assistiamo ad un atteggiamento scientifico generalizzato che tende a rendere la comprensione della realtà, quasi banale, ossia regolata da leggi di causa ed effetto facilmente commerciabili.

Intanto, nei rapporti umani della vita quotidiana, le persone tendono a definirsi sempre più uniche, irripetibili e autonome. È come se adottassimo un atteggiamento schizofrenico. Quando dobbiamo giudicare noi stessi, nella parte più interiore e nascosta del nostro essere, tendiamo a giustificare la presenza di una grande complessità. Mentre, quando dobbiamo giudicare le altre persone, come la realtà che ci circonda, siamo indotti a trovare soluzioni ovvie, basate su stereotipi e preconcetti, poco originali ma che, comunque, salvano sempre la nostra identità.

Gli altri, per il fatto di essere altro da me, sono sempre qualcosa di molto diverso da me, e per questo semplice fatto, ammesso che sia un fatto reale, io sono sempre il migliore.

E mi sembra che nei fatti che stanno caratterizzando questo nostro mondo, a partire dall’Europa, si configuri proprio quanto appena scritto.

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