Quale Gesù?
È tutta questione di… disperazione.
Ne Il nome della rosa, Umberto Eco, fa dire, sul finale, a Jorge da Burgos, che “il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede”.
Questa è considerazione che emerge in me, dalla lettura di questa notizia.
In effetti, di fronte a queste manifestazioni di intelligenza umana (perché, certamente, gli autori, i creativi, di questo manifesto si ritengono al di sopra degli altri esseri umani religiosi cristiani) è spontaneo porsi una serie di domande.
La prima: cosa sarà mai accaduto nella storia di questi autori di così grave, traumatico e drammatico da indurli a produrre tanta creatività geniale? La seconda: quale obiettivo socio-culturale vorranno mai perseguire persone così, con un manifesto di questo genere? La terza (non ultima, anche se mi fermo…): quale idea avranno mai di un Dio se riescono a presentarlo in una dimensione che esula completamente dal messaggio che lo stesso Dio ha proposto al mondo, attraverso la figura di Gesù?
Insomma, in poche parole, sarebbe davvero interessante ascoltare eventuali risposte alle mie semplici domande. Sarebbe importante, sempre dal mio punto di vista, cercare di comprendere l’origine, lo sviluppo e il fine di un’idea alla Charlie Hebdo.
Per quanto mi riguarda, ritengo che tali manifestazioni di apparente libertà cognitiva, come se tale libertà avesse a che fare con la tradizione etico-morale di un popolo, rivelino in realtà un forte disagio mentale e relazionale. In effetti, quando, in una nazione, il sentimento del limite, specialmente rispetto alle proprie tradizioni religiose, viene considerato una gabbia etica, e dunque anche morale, invece di costituire il luogo della libertà, siamo di fronte ad un notevole e generale sbando.
Se volessimo parafrasare Jean Paul Sartre diremmo che la libertà è il luogo delle scelte possibili, e non di quelle impossibili, e che l’umanizzazione in senso becero e volgare di un Dio, per dare sfogo alle proprie frustrazioni emotive, è segno di egocentrismo mortifero e triste.
Ecco perché non mi scandalizzo più di tanto, rispetto a queste manifestazioni, mentre emerge in me un sentimento sempre più diffuso di pena e compassione, ma che non porta con sé il bisogno di aiutare questi individui a crescere sul serio.
Ci penserà la vita a farlo, che vogliano o meno loro stessi. E se non cresceranno, periranno prima, secondo tempi, modi e motivazioni che non ci è dato sapere. Non c’è alternativa.
Una grande fortuna, in fondo.