È tutta questione di… ridicolaggini politiche.

In questo periodo di festa, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, spesso inseriti nel flusso di una velocità quotidiana direi quasi patologica, ho riflettuto sull’invito – che ho espresso anche qui, nel blog – a lasciare questo Paese. Mi sono riferito ai giovani, ovviamente, e in nome di un futuro che presumo essere migliore al di fuori dei confini nazionali.

Certo, la situazione mondiale, esistenziale perché economico-sanitaria, non permette di continuare a pensare in questi termini in modo assoluto, perché, tranne che per la Cina, che sta ricavando benefici nell’aver sconfitto zio Covid-19 indigeno, è tutt’altro che positivamente promettente.

Dobbiamo vedere, e lo sapremo nei prossimi mesi, cosa accadrà con la somministrazione del vaccino, specialmente rispetto ad un virus che “fa il proprio lavoro”, ossia muta e contagia. Peraltro, zio Covid-19 è dotato di circa 30.000 basi, e non è difficile pensare al numero di combinazioni di mutazioni possibili!

Insomma, vedo una serie di possibili complessità antropologico-esistenziali di forte impatto nella mente di tutti noi.

Quindi, sulla base di queste considerazioni, mi sono chiesto cosa significasse per me “amare la mia patria”, rispetto all’idea di un sovranismo che non ho mai accettato. Grazie ad un caro amico siciliano, ex sindaco, di un bellissimo comune isolano, ho iniziato questa riflessione e vi scrivo dunque a quale conclusione sono, per ora, giunto.

Le persone sono nelle condizioni di dialogare fra loro senza snaturare, oppure negare, la propria identità, ossia quello che credono di essere, quando durante il dialogo è chiara la differenza con il proprio interlocutore. In altri termini, se una nazione vuole dialogare con un’altra nazione è necessario che la prima abbia un’idea relativamente chiara delle sue posizioni culturali, della propria tradizione, dei propri costumi e atteggiamenti. Solo in questo modo è nelle condizioni di valutare, durante il dialogo con un’altra nazione che ha chiare le stesse sue tradizioni culturali, cosa è possibile mettere in comune in modo globale. Questo è per me patriottismo e penso che sia un sentimento, inteso in questi termini, tipico di ogni essere umano che ama la casa nella quale è nato e/o vissuto. Il sovranismo, invece, è qualche cosa di pregiudizialmente legato all’idea di una profonda superiorità culturale, rispetto all’idea di comunione. Insomma, il patriota riconosce i meriti della propria casa, e li mette in comunione con il mondo, mentre il sovranista considera questi meriti come assoluti e generalizzabili, affermando irrevocabilmente tale supremazia sugli altri.

Ecco perché, considero ancora valido il mio invito a lasciare questo Paese, perché in questo modo i nostri giovani avranno la giusta contezza di cosa significa essere italiani. Avere questa consapevolezza all’esterno significa, dal mio punto di vista, valutare i processi della globalizzazione secondo una prospettiva più equilibrata e migliorativa, sia per il mondo che per il proprio Paese natio.

Non dimentichiamo che come il pesce si rende conto dell’acqua solo quando ne è tratto fuori, noi ci rendiamo conto delle caratteristiche della nostra cultura e delle differenze rispetto ad un’altra solo quando lasciamo il nostro Paese e ci trasferiamo in un altro, per un discreto periodo di tempo.

Solo così siamo in grado di parlare di differenze.

Tutto il resto è fuffa e vaniloquio.

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