È tutta questione di… contro effetti.

Un caro amico, assiduo frequentatore del blog, mi invia questa notizia, con il seguente commento: “La gente si è fatta furba”.

Io penso che se essere diventati furbi significa condurre la vita come la stiamo conducendo, abbiamo forse qualche problema cognitivo e dunque emozionale. Le ricerche neuroscientifiche dimostrano ampiamente che le emozioni costituiscono l’85% del funzionamento cerebrale generale e che con esse ogni umano valuta cognitivamente il mondo. In altre parole, le emozioni sono una vera e propria valutazione dello stato del mondo e del nostro stato. Certo, il mondo è cambiato, esattamente come le cose cambiarono dal Medioevo al Rinascimento, e le valutazioni umane sulle proprie prospettive esistenziali sono mutate. La scoperta dell’America ha senza dubbio fornito a tutti gli esseri umani europei la formazione di un’idea diversa di futuro, di realizzazione e di viaggio, per esempio. Sono nate nuove prospettive, assieme a visioni e progetti di vita.

Ecco perché considero significative le considerazioni espresse dall’Arcivescovo Betori, con le quali mi trovo relativamente in accordo. Nelle sue parole è, in effetti, contenuta la diagnosi di caratteristiche mentali ed esistenziali che sembrano contraddistinguere la nostra contemporanea umanità (almeno quella fortemente post-industriale), e che io spesso riscontro nei miei studenti universitari.

Il concetto che più mi ha colpito, suscitando in me una serie di riflessioni, è il seguente: “Una vita che vuole tante esperienze non può essere una vita che si consacra a una finalità, a uno scopo. Vale per il matrimonio, per il sacerdozio, per tutte le scelte delle persone”. Dalle neuroscienze apprendiamo che di fronte ad un’eccessiva quantità di opzioni, l’essere umano tende a non scegliere. È sempre auspicabile possederne un numero gestibile e non superiore a tre. E questo dato sembrerebbe dare ragione all’arcivescovo.

In realtà, non è proprio così.

In effetti, non possiamo limitare i nostri giovani, specialmente in questo mondo così ricco di stimolazioni, nei loro desideri di sperimentarsi. Dovremmo, forse, insegnare loro quali potrebbero essere le esperienze più facilmente digeribili, ossia quelle che producono una riflessione postuma personale. Mi riferisco a quelle occasioni di vita che conducono al miglioramento individuale, sia di tipo professionale che relazionale. In altre parole, sapere scegliere diventa l’imperativo più impellente in questo millennio, proprio perché siamo circondati da falsi profeti e fake news.

Ciò che dunque avrei voluto ascoltare dal Betori era la proposta di una Chiesa in grado di rispondere alle domande dei nostri giovani, spesso legate all’esigenza di sentirsi parte di una comunità umana più solidale, nei fatti e non solo nelle parole. Se non abbiamo vocazioni, la Chiesa dovrebbe forse chiedersi cosa lei stessa fa per avvicinare il messaggio divino alle nuove generazioni, e se lo fa attraverso l’ascolto al posto della promulgazione di divieti.

Non penso che i proclami di Papa Francesco procurino una reale ed utile riflessione sulle scelte di vita giovanili, se queste dichiarazioni non si incarnano in comportamenti più visibilmente vicini alle parole stesse.

Senza esempi non esiste educazione, e fornire esempi è questione di comportamento e di serio impegno quotidiano da parte di chi intende educare.

E questo vale per tutti, anche per la Chiesa.

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