È tutta questione di… conoscenza.

Hanna Arendt, studiosa e filosofa del secolo scorso, ci insegna che esiste una grande differenza tra l’invisibilità e la visibilità di tutti noi.

Di origine ebrea e testimone della Shoah, l’autrice sostiene che sia importante mantenere gelosamente nel privato l’aspetto interiore della propria identità, appunto ciò che è invisibile, ma sottolinea, allo stesso tempo, che nella vita pubblica di ogni essere umano, questo invisibile diventa visibile, agli altri e anche a se stessi. Si tratta di un concetto che risulta essere di fondamentale importanza quando si voglia parlare di speranza collettiva.

Con un esempio, cerco di chiarire meglio.

Si consideri il caso di una persona che esprime nel privato della propria vita una leggera tendenza alla possessività, sia verso le persone a lui/lei care che verso le cose. Questo atteggiamento deve, per Hanna Arendt, rimanere gelosamente privato, invisibile in pubblico, perché fa parte di una personale interpretazione su come condurre le proprie relazioni affettive. L’esercizio di una qualsiasi professione da parte di questa persona porta a vivere nel visibile, ossia nel pubblico, questa tendenza che avrà così l’opportunità di manifestarsi. Grazie a questa occasione, la persona riuscirà a rendersi conto, specialmente quando qualcuno glielo dovesse far notare, dell’inclinazione che possiede, tenuta gelosamente nascosta.

Secondo l’autrice, questo passaggio, dall’invisibile singolare al visibile plurale, è una delle funzioni necessarie allo sviluppo della propria identità. Non solo, in questo processo risiede anche la formazione del sentimento del limite verso ciò che appartiene a noi stessi, perché la dimensione interiore di ciascun individuo va sempre a incontrarsi con quella di altri individui e con la possibilità di accogliere la visione che gli altri hanno di noi.

In poche parole, potremmo dire che Hanna Arendt ha proposto una teoria antropologica interessante per spiegare i meccanismi attraverso cui si formano i primi atteggiamenti etici.

Il ruolo che il tempo svolge, all’interno di questo processo, che corre lungo la linea invisibilità-visibilità è fondamentale, specialmente se lo accostiamo alla formazione della speranza.

Diventare consapevoli che nel passare da una dimensione privata a quella pubblica, senza che l’una vada ad inficiare la presenza dell’altra, e stabilire un rapporto dialettico e affettivo con le due fondamentali espressioni della nostra identità, è un fatto significativo. Direi che proprio in questa relazione si affrontano i cambiamenti che le condizioni di vita propongono a tutti noi.

Se non sapessimo, di fronte alle novità che la vita ci riserva, che possiamo rimanere sempre noi stessi pur cambiando in qualche nostra manifestazione esteriore, molto probabilmente saremmo soggetti a continue crisi di identità.

Ecco che la speranza, atteggiamento che prende le mosse dalla consapevolezza del proprio passato e si nutre della pulsione biologica della sopravvivenza, si configura come un atteggiamento mentale che ci proietta verso un futuro possibile. Un futuro nel quale il mio singolare, il privato della mia vita, può essere parte del pubblico di una comunità intera, che peraltro riconosce la mia parte invisibile come un valore aggiunto per la comunità stessa.

In fondo, se guardiamo con attenzione alla cosa, la speranza è una forma temporale di movimento con cui la mente si proietta nel futuro senza negare la propria identità. Con la speranza ci si convince di poter migliorare senza perdere di noi stessi la percezione di rimanere identici.

Non posso sperare di innamorarmi se ipotizzo che mi posso ammalare di una malattia grave, mentre posso sperare, dando per scontato che il mio stato di salute fisico e mentale rimarrà buono.

Diventerò, così, in grado di realizzare i miei desideri.

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