È tutta questione di… fragilità.

In Europa, la nascita di vere e proprie strategie educative può essere datata intorno alla seconda metà Seicento. Da questo momento in poi emerge il concetto di infanzia, intesa come periodo di vita che deve essere accuratamente protetto e controllato. L’attenzione per il bambino non è però di tipo affettivo-emozionale, ossia legato alle reali ed infantili esigenze espresse dal non-adulto, quanto rivolta alla definizione di spazi all’interno dei quali collocare il bambino: scuole, istituti, asili, etc.

Si inaugura così l’avvento di una concezione contraddittoria: accanto all’attenzione per il bambino con la creazione di spazi ad hoc si assiste ad una progressiva perimetrazione dei suoi spazi esistenziali. In altre parole, il bambino è quasi confinato all’interno di un ghetto pedagogico che lo allontana sempre di più dalla socialità familiare. Quest’ultima viene sostituita da una socialità più esogamica, dunque più eterodiretta.

“Si tratta di un processo lento, che si realizza compiutamente, nei ceti borghesi e aristocratici, solo nell’Ottocento. Esso ha anche conseguenze diverse per ragazzi e ragazze, nella misura in cui l’istruzione formale dapprima, e per molto tempo dopo, differenzia i percorsi maschili e femminili ancora più nettamente che nella società tradizionale, separando anche gli spazi: a scuola vanno solo i maschi, i convitti femminili si trovano per lo più entro i conventi; e l’istruzione ricevuta dai due sessi è totalmente differenziata” (Saraceno C., Naldini M., 2001, Sociologia della famiglia, Il Mulino Editore, Bologna, pg.133).

Una delle conseguenze più importanti di queste considerazioni è che la formalizzazione delle proprie potenzialità non è mai infinita, ma culturalmente veicolata, al fine di mantenere un buon livello di integrazione socio-culturale e allontanare tutte le forme di comportamento entropico. In altri termini, queste forme di organizzazione culturale sono state selezionate dallo sviluppo della specie e dalla vita comunitaria che l’uomo conduce.

In questo modo la selezione naturale permette la sopravvivenza della cultura e quindi dei suoi membri, svantaggiando alcuni di essi. Il saldo esistenziale attivo-passivo di cui parla Gavino Musio è in parte legato alle disponibilità culturali ed in parte dipende dal comportamento dell’individuo che non si conforma alle sue disponibilità e giunge così a provare rimorso. Per saldo esistenziale si intende la differenza tra la quantità di gratificazione e la quantità di deprivazione, che hanno caratterizzato il decorso esistenziale dell’individuo-gruppo. Il rimorso, secondo l’antropologia cognitiva può essere definito come lo stato di disagio originato dal divario tra le disponibilità mentali-culturali dell’individuo e le sue esperienze.

Se l’individuo “esce” dall’ambito delle sue disponibilità e si comporta contrastandole proverà rimorso.

L’aspetto strutturale a monte è che la cultura premia coloro che sia adeguano ai modelli di comportamento accettati e punisce coloro che vi si discostano troppo. Mi sembra una buona considerazione, specialmente per comprendere i comportamenti umani di qualche “esponente” della nostra nazione.

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