È tutta questione di… umiltà.

L’azione del dubitare è espressione di un buon funzionamento della mente, dunque di un apparato neurofisiologico centrale, il cervello, che reagisce bene alla vita.

Altrettanto importante è la presenza del dubbio su una eventuale verità da scoprire.

Ma quando questo dubbio diventa la meta finale di un atteggiamento secondo cui nulla in questo mondo è certo, si cade nella confusione più totale. Quella che, secondo me, stiamo vivendo a quasi tutti i livelli di vita quotidiana: in famiglia, a scuola, in vacanza, con gli amici e al supermercato.

Invece, il dubbio è una strategia per conoscere, non il fine, lo scopo della conoscenza, che deve rimanere sempre la ricerca della verità, sia che essa esista realmente oppure no. Credere che esista la verità è un atto di Fede, cercarla è una funzione esistenziale della mente.

Abdicare alla ricerca del vero, è come abdicare alla nostra stessa natura di esseri coscienti e pensanti.

Nel cercare il fine ultimo di tutte le cose, la verità, la consapevolezza di essere intrisi di mistero, perché siamo noi stessi un mistero di perfezione fisiologica e mentale, non ci abbandona, ed è sotto gli occhi di tutti noi. Grazie all’idea di mistero, cioè di qualche cosa che pure è presente nella vita, ma non è chiaramente comprensibile, l’uomo preistorico inizia a ipotizzare la sua stessa esistenza come probabilmente immortale, proprio perché inserita nella ciclicità della Natura.

In effetti, con la scoperta dell’agricoltura, nell’ottavo millennio a. C., l’umanità inizia un percorso strutturato verso la trascendenza. La scoperta della coltivazione, con i suoi ritmi stagionali, dove ad ogni morte fa seguito la successiva rinascita, induce alla ritualizzazione di questa ciclicità.

Per questo motivo, io ritengo che la dimensione religiosa sia necessità biologicamente vincolata nell’umanità (anche quando la si nega, spesso perché se ne sente l’attrazione…), e che dalla notte dei tempi la nostra specie abbia tentato di stabilire un rapporto amichevole con il divino. Certo, questo rapporto non è possibile quando si ritiene che la ragione dell’uomo possa fare a meno del mistero, che non sia necessario entrare a farne parte per conoscerlo, perché vi è solo caso, caos, o pura razionalità.

Se credo che l’Uomo, con il solo ausilio della propria ragione, come è accaduto durante l’Illuminismo, possa fare luce su tutto, quale portatore della luce della ragione (come fosse un nuovo lucifero), non è necessario nemmeno mettersi in comunicazione con il cielo.

In questo ultimo caso, il cielo è solo una proiezione della nostra mente, persino assente come dimostra la fisica. Se invece sono consapevole di essere parte di un tutto, diventa legittimo mettermi in comunicazione con questo Tutto. Un Luogo (come ci insegna l’ortodossia ebraica) misterioso, ma parte della ciclicità della natura, in cui si può individuare il progetto esistenziale.

Ecco, penso che di fronte a queste mie considerazioni sia relativamente semplice comprendere a quali livelli di presunzione sia giunta la nostra umanità, senza la minima idea ben radicata di transitorietà, e dunque di vacuità.

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