Commensurabilità
Nello scorso articolo, ho descritto il “problema dello scambio“. Continuo, in questo che state leggendo, a proporvi qualche soluzione ai quesiti presenti nello scritto precedente.
In effetti, risponde alle domande Aristotele, nella sua Etica Nicomachea, nel Libro V, quando parla di commensurabilità.
Il grande filosofo greco ci dice infatti che tutte le cose che possono costituire oggetto di scambio devono, in qualche modo e misura, essere commensurabili. È necessario, cioè, che esista un riferimento oggettivo, valido per tutti, con il quale misurare mediamente ciò che può essere in eccesso o in difetto in uno scambio. Rispetto al nostro esempio, è necessario trovare qualche cosa che sia in grado di attribuire un valore medio al lavoro del meccanico che equivalga al valore medio del lavoro del proprietario dell’auto. Questa cosa è la moneta, perché mediamente misura il valore degli scambi fra le persone, in qualsiasi società che abbia appunto inventato questo espediente.
Ma, l’aspetto più interessante del ragionamento, particolarmente significativo in ambito antropologico-mentale, è che senza commensurabilità non esiste nessun tipo di scambio e non può nemmeno nascere una comunità umana.
Aristotele, infatti, continua affermando che se i beni da scambiare non sono in qualche misura di uguale valore non si potrà verificare nessuno scambio. In sostanza, la moneta è quell’oggetto grazie al quale la nostra specie si è evoluta socialmente, culturalmente e ha dato origine all’era della globalizzazione.
Senza moneta non esiste solidarietà umana, commercio e comunicazione e, nello stesso tempo, senza moneta non esiste ricchezza e povertà, oppressori ed oppressi, libertà e schiavitù. La moneta possiede un valore simbolico importante, come ci ricorda Keith Hart, legato all’effigie che troviamo sul fronte, rispetto al retro.
Quando compriamo della pasta, nessuno di noi vuole sapere, magari mediante un lungo rituale con il venditore, la storia personale di colui che l’ha prodotta, lo stile di vita che conduce e in quali valori etici egli creda. A mala pena, siamo interessati alla storia del prodotto, in nome della attuale cultura alimentare che ci invita a prendere coscienza della filiera alimentare. E non siamo nemmeno interessati a sapere cosa sia accaduto, con la nostra banconota, prima di possederle, quando era in mano a persone che resteranno per noi sempre sconosciute.
La banconota, in sé stessa, non conserva nulla della storia dei suoi possessori.
A noi interessa il suo valore nominale, ossia cosa possiamo avere se la utilizziamo per comprare ciò che desideriamo. Secondo Keith Hart, oggi, nella nostra contemporaneità, abbiamo perso il riferimento al valore simbolico della moneta, ossia a quel valore identitario rappresentato dall’effigie che troviamo sul fronte (Hart K., 1986, Heads or Tails? Two Sides of the Coin, in “Man”, XXI, n. 4, pp. 637-656). Un valore che permette alla Banca Centrale di un Paese (oppure di una Unione, come quella europea) che batte quella moneta di pagare a vista il portatore.
Non è una cosa di poco conto, effettivamente.
E proprio sulla base di queste interessanti considerazioni, è altrettanto vero che la moneta rappresenta forse il luogo privilegiato all’interno del quale l’essere umano può esprimere il meglio e il peggio di sé.
E il peggio e il meglio di noi è legato ai bisogni di ciascuno di noi. Solo quando i nostri bisogni sono in qualche modo commensurabili può avvenire lo scambio. È così che crediamo di comprare la felicità, il successo, l’amore e la professionalità. Ed è così che vendiamo agli altri la felicità, il successo, l’amore e la professionalità.
Certo, si tratta di sapere e decidere come comprare e come vendere.
Ogni strumento, ogni artefatto umano, in sé, è sempre neutro, ossia contemporaneamente positivo e negativo. È l’utilizzazione da parte dell’Uomo, che peraltro lo ha inventato, che può modificarne lo scopo, per il perseguimento del bene comune, oppure del male comune.