La mia speranza
È tutta questione di… disponibilità mentale.
È vero che non possiamo fare previsioni.
In genere, non le possiamo fare in nessuna condizione esistenziale, perché non è possibile ipotecare né conoscere il futuro. Nello stesso tempo, però, è anche vero che si può auspicare la presenza di opzioni possibili, sulla base di personali considerazioni esistenziali e sulla base della conoscenza di come si è evoluta la nostra specie. Possiamo cioè pensare al nostro futuro tanto in ottica individuale quanto in ottica plurale, e secondo quello che pensa la grande Anna Harendt sarebbe meglio prospettare un futuro pubblico.
Partiamo subito da una brevissima valutazione del termine “speranza”, che troviamo spesso legato ad altre due virtù, “fede” e “carità”, conservando così una dimensione religiosa. In questo contesto, non lo voglio considerare secondo tale accezione. Preferisco valutare questo termine in ottica antropologico-mentale, per cui dico spesso ai miei studenti, la speranza è l’esercizio quotidiano della volontà. L’ho scritto anche qui. E lo ripeto, perché le considerazioni che seguono sono direttamente collegate a questo esercizio.
Prima che zio Covid-19 ci fermasse, con tutta la forza della sua invisibilità microcosmica, le cose andavano nel modo seguente: a) desiderio di raggiungere qualsiasi forma di successo mediatico, subito e con determinazione, senza minimamente contare quanti cadaveri si lasciassero per strada, durante il tragitto; b) velocità ansiogena e spasmodica negli spostamenti (fisici e geografici), affinché si potesse guadagnare, con il minor sforzo possibile, la maggior quantità di denaro; c) convinzione di possedere capacità e abilità, misteriosamente infuse dal Cielo, nell’esprimere giudizi sui più disparati argomenti dell’esistenza umana, della politica e dell’economia, come se la fatica dello studio fosse qualcosa riservato agli imbecilli; d) convinzione, profusa in modo continuativo e costante nel tempo, sulla validità assolutamente positiva della propria esistenza, e della propria identità personale, perché l’ego è identico all’intestino; e) confusione terminologica e sostanziale fra il concetto di “intelligenza“ e quello di “stupidità“, grazie alla quale coloro che presentano cautela e prudenza, nei loro dialoghi privati e pubblici, vengono invece considerati stupidi, perché l’optimum sta nel prendere decisioni immediate e avventate; f) esasperazione del delirio di potenza, intesa come espressione aggressiva della propria determinazione nell’imporre agli altri l’unico ragionamento possibile e valido, ossia il proprio; g) considerazione del tutto negativa di qualsiasi forma di equilibrio, di giusta misura e di ascolto effettivo, specialmente durante i dialoghi mediatici, come se l’educazione fosse un evidente disvalore evolutivo; h) esaltazione di un’esasperata ignoranza diffusa e socialmente legittimata, perché espressione di quella “università della vita“ che significa, il più delle volte, “accattonaggio alfabetico-culturale”; i) infine, attribuzione di significato esistenziale e culturale a tutte le espressioni linguistiche e comportamentali becere, di bassissimo livello educativo, ma comunque appartenenti al sottobosco massificato della globalizzazione popolare.
Ecco, tutto questo sta continuando, perché zio Covid-19 non è ancora riuscito a fermarlo del tutto.
Però, quando qualcuno spera di poter tornare presto alla normalità di prima, io mi auguro che questo non sia assolutamente possibile. Proprio perché il prima era l’insieme di tutti i punti che ho evidenziato (e ne sono stati omessi molti altri, ovviamente…).
Preferirei riscoprire una nuova normalità, magari migliore, decisamente rispettosa dell’essere diversamente uguali.
Ecco perché faccio gli auguri a tutti noi.
Ne abbiamo un bisogno planetario!