È tutta questione di… sacralità.

Oggi, desidero ragionare sulle riflessioni di una persona che conosco personalmente dal 2009, con la quale ho ancora occasione di lavorare e che rappresenta per me (ma non solo per me… fortunatamente) l’espressione di quella intellettualità accogliente e chiara di cui questa nazione ha un forte e impellente bisogno. In realtà, penso che questo bisogno sia mondiale, mentre l’Italia esemplifichi egregiamente la desertificazione da cui questa stessa necessità emerge.

La persona cui mi riferisco è Giuliana Mieli, di cui potete ricavare le informazioni nel web, e che ha ultimamente pubblicato alcune sue considerazioni scientifico-filosofiche. Ovviamente occorre che leggiate con attenzione il suo articolo (anche se relativamente lungo…), per comprendere le mie considerazioni qui di seguito riportate.

Partiamo da un breve elenco dei termini e locuzioni che la Mieli utilizza: cura, vantaggio, antropocentrismo, etica, comportamenti, sacralizzazione dell’utile, comportamenti smodati, natura, relazione, agglomerati urbani immersi nel cemento, OMS, Scienza, comunicazione, e molti altri ancora.

Come vedete, parlare di zio Covid-19 significa, non solo per me, fare riferimento a veri e propri, nonché consolidati e sempre più confermati, atteggiamenti abortivi, anti evolutivi della nostra specie. Una “vera comunità scientifica internazionale” sa essere prudente, cauta ed accorta, specialmente prima di esprimere giudizi che sono solo un “work in progress” rispetto ad un virus di cui non si sapeva nulla.

Inoltre, sono completamente in accordo con la studiosa quando nota l’assenza di atteggiamenti di genitorialità, che avremmo dovuto attenderci come presenti proprio a livello macro-sociale, ad opera degli Stati e della Comunità scientifica. Tutto questo non è affatto accaduto, mentre abbiamo assistito, anche in una situazione grave come la pandemia, al ripetersi dello slogan implicito che evidenzia la Mieli: “Produci, consuma, crepa”.

Certo, non sono d’accordo con la Mieli quando sostiene che la colpa sia da attribuire al modello neo-liberistico in toto. Infatti, ritengo che se fossimo stati in presenza di una reale ed effettiva genitorialità (nel senso che la studiosa intende…) anche il modello  economico thatcheriano avrebbe subito un ridimensionamento. Comprendo che potrebbe trattarsi del problema dell’uovo e della gallina, ma se le due cose sono legate (il modello liberistico e la genitorialità) e lo sono veicolandosi reciprocamente, il potenziamento della genitorialità avrebbe veicolato il ridimensionamento del modello economico. Non possiamo, secondo me, continuare a credere che l’economia, in quanto tale, sia qualcosa che “vive oltre gli esseri umani che la producono, la scelgono e la vogliono”.

Ecco perché, nonostante questa mia personale visione della dimensione antropologica dell’economia, rispetto a quella proposta dalla Mieli, io opto in favore di una strada obbligata: la formazione, l’educazione alla genitorialità potrà salvare la nostra specie da un disastro che si sta annunciando. E non è detto che lo si vedrà a breve termine, questo sfascio delle relazioni e del nostro rapporto con la Natura, anche se già ora è comunque venuto chiaramente a galla come il vero e sostanziale problema del nostro attuale modo di esistere.

Ce la possiamo fare, ma non certo con i banchi a rotelle.

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