È tutta questione di… ritorno alle origini.

I processi cognitivi umani, che condividiamo con le grandi scimmie antropomorfe non umane, ossia gli scimpanzé, i bonobo, i gorilla e gli oranghi, si possono suddividere in due macrocategorie: a) i processi relativi al mondo fisico e b) quelli relativi al mondo sociale. Rispetto a quest’ultimi, una proprietà emergente è quella della causalità agentiva, ossia dell’intenzionalità.

Nella nostra specie, la conoscenza del mondo fisico si esprime secondo la realizzazione di quattro fondamentali obiettivi: a) il cercare fonti di sostentamento economico, e quindi in senso lato di cibo, con l’esecuzione di abilità cognitive che implichino la localizzazione e la percezione dello spazio; b) il riconoscere e catalogare la fonte di sostentamento, sia in senso individuale che culturale, grazie alla quale evidenziamo le caratteristiche della fonte; c) il quantificare il valore e la grandezza della fonte di sostentamento; d) valutare il modo in cui la fonte di sostentamento può essere utilizzata per la propria esistenza.

Interessante è notare che queste caratteristiche che crediamo essere comunemente umane le condividiamo con le scimmie antropomorfe cui abbiamo prima accennato. Però, rispetto ad esse, la nostra specie è nelle condizioni cognitive di eccellere nell’uso degli strumenti operativi che le permettono di modificare l’ambiente fisico nel quale esiste, di programmare e progettare stili adattivi vincenti.

Circa l’utilizzo degli strumenti, riferendoci agli utensili, agli artefatti umani, è necessario sfatare il mito della nostra esclusività.

“Gli animali hanno bisogno di un cervello molto sviluppato per usare alcuni utensili. Persino gli insetti ne sono capaci. Ad esempio, la vespa Amophila urnaria comprime le pareti del suo rifugio con un ciottolo tenuto in bocca. Le larve del formicaleone stanno mezze sepolte nella parte inferiore delle loro trappole a forma di imbuto e con uno scatto della testa gettano un po’ di sabbia addosso agli sfortunati insetti che cercano di scappare lungo le ripide pareti della trappola. Le formiche Myrmicene immergono pezzetti di legno e di foglie in cibi viscosi quali il miele, la polpa di frutta e i succhi corporei delle loro vittime, aspettando che la sostanza vi aderisca, e poi la trasportano nel loro nido. Parecchie specie di uccelli usano le pietre per rompere il duro guscio delle uova di struzzo, di emù e di gru giganti. L’avvoltoio egiziano, per esempio, afferra con il becco una pietra, volteggia a circa un metro di altezza sopra un uovo di struzzo, piega il collo all’indietro e poi scaglia la pietra con mira perfetta. I fringillidi tengono nel becco rami, spine di cactus, o rami di foglie e li usano a mo’ di punzoni per infilzare o scacciare gli insetti dai nascondigli ricavati nella corteccia degli alberi. Quando mangiano, tengono l’utensile sotto le zampe, poi volano verso l’albero più vicino portandoselo dietro. Persino alcuni pesci usano una sorta di utensile: lo prova l’Arciere dell’Asia sudorientale, che caccia mosche e zanzare spruzzando loro addosso l’acqua” (Harris M., 2002, La nostra specie. Natura e cultura nell’evoluzione umana, Rizzoli Editore, Milano, pgg. 27-28).

La nostra specie non si comporta in modo molto diverso, al di là dell’ambientazione esistenziale, il paesaggio urbano e non solo forestale. In altri termini, di fronte a stimoli ambientali appropriati, ossia quando si presenta la necessità di trovare soluzioni a problemi di adattamento, la nostra mente attiva un processo risolutivo attraverso l’uso di utensili.

Bene, sulla base di queste scientifiche considerazioni, dovremmo chiederci se in questo periodo storico evolutivo mondiale la nostra specie possiede gli strumenti concreti e metaforici, entrambi cognitivi, per far fronte alle problematiche che si stanno affacciando con sempre maggiore evidenza.

Eh, sì… perché, a questo punto della storia nazionale e non solo, mi sembra legittimo chiedere se siamo di fronte a malafede solamente, oppure a qualche altra e più grave deficienza.

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