Il diverso da sé
È tutta questione di… ignoranza.
Quando l’individuo si trova nelle condizioni di elaborare il nuovo, la necessità di percepirsi identico a se stesso lo induce ad avere timore del diverso da sé.
In sostanza, abbiamo paura che ciò che non conosciamo modifichi e stravolga l’idea che possediamo di noi stessi. La paura risiede nella eventualità che il nuovo induca modificazioni dell’identità, sia in senso fisico sia mentale. Questo accade perché “il vivere” è per ognuno di noi un imperativo categorico al quale non è possibile rinunciare.
In questo dinamico processo, il non conosciuto significa per noi la minaccia di una trasformazione eccessiva, non supportabile dai neuroni.
Invece, nel caso in cui l’ignoto sia compartecipato e mediato, ad esempio attraverso interventi sociali di accoglienza della diversità, il sentimento di identità personale è salvaguardato e tale differenza non è vista più come una nemica defraudatrice. In effetti, la coscienza di colui che accoglie entra in gioco nel processo decisionale della stessa accoglienza, e il problema viene produttivamente meglio gestito.
In caso contrario, il sentimento di estraneità prevale perché è assente la partecipazione. Ci si ritrova immersi in un rapporto che non abbiamo voluto, né cercato e nei confronti del quale è difficile prevedere sviluppi controllabili. Quando non si ha la possibilità di partecipare alla creazione di una relazione, ossia di un evento, si costruiscono conseguenze nefaste perché non se ne conoscono le cause.
Il pensiero occidentale è in effetti caratterizzato da una logica consequenziale ed operativa di tipo aristotelico, secondo la quale un evento possiede una matrice collocabile nel tempo. Il nostro modo di elaborare i dati della realtà è simile a quello di un masso che guarda immobile lo scorrere delle foglie sulla superficie di un torrente in piena. Crediamo di essere attori nel reale senza essere consapevoli della nostra immersione nel mutamento.
Noi stessi mutiamo assieme alle cose.
Inoltre crediamo che la vita sia essenzialmente un susseguirsi di fatti, quando invece si tratta di eventi. Gli eventi richiedono l’azione dinamica di chi li osserva e di chi li compie, e ad un tale livello di integrazione non esiste una netta differenza fra l’osservatore e l’esecutore materiale. L’evento è la risultate dinamica e confusa fra l’azione del vedere e lo stato del guardare, come direbbe il ricercatore visuale Ugo Locatelli.
Solo recuperando questa concezione è possibile allontanarsi dalla necessità di collegare tutto ciò che accade secondo una successione cronologica di relazioni visibili od evidenti. O ancora, vi sono elementi della realtà di cui noi non siamo apparentemente partecipi, ma che comunque ci riguardano. È il caso delle immigrazioni causate da motivazioni lontane dalla nostra comprensione visibile, ma non per questo lontane da un generale sentimento di responsabilità. Quando invece riteniamo che ci appartenga solo ciò cui partecipiamo, sviluppiamo, in assenza di partecipazione, un sentimento diffuso di ansie paranoidi (come nel caso delle nostre preferenze sessuali). Crediamo che vengano a rubarci il pane dalla bocca, come se non ce ne fosse abbastanza per tutti; siamo convinti che il diverso sia assolutamente sinonimo di devianza e quindi pericoloso per la crescita dei nostri figli.
Si giunge quindi a sviluppare fenomeni misantropi.