È tutta questione di… prospettiva.

Nell’articolo precedente ho affrontato il concetto di abitudine, ed ora vi propongo alcune considerazioni sul prosieguo esistenziale, rispetto alle riflessioni della volta scorsa.

Con il dolore acquisto consapevolezza del valore di un’abitudine, di una ripetizione che si verifica da anni nella mia vita. Quando mi abituo a qualche cosa, ad avere, ad esempio, una serie di attenzioni da una persona che considero un amico, appena l’amico è nelle condizioni di mancare a questa abitudine, sono subito pronto ad affermare che è cambiato, che è persino diventato un’altra persona.

E abbiamo accennato alla tendenza che ogni essere umano esprime nel ritenere che i cambiamenti verso il peggio riguardino sempre gli altri, mentre noi crediamo di migliorare sempre. E anche in questo caso è sempre l’abitudine che induce a credere al normale e all’ovvio.

Non solo.

Si arriva persino a credere che sia giusto così, e quando un dolore va a scombinare tutto, ci si rende conto che non si è padroni di nulla, nemmeno dei nostri pensieri, come invece pensava Socrate. Ecco perché la nostra mente cerca nelle altre persone, nelle azioni che esse compiono, una certa e discreta dose di sicurezza, per potersi convincere che la vita sia una questione normale, controllabile e prevedibile.

Eppure, la vera conquista che ogni adulto persegue nel corso della propria esistenza, è proprio la capacità di fare del dolore, che scombina tutto, il senso delle cose, la forza per continuare a progettare la propria sicurezza.

Ora vi chiedo e mi chiedo: il nostro sistema educativo, le nostre istituzioni scolastiche, sono effettivamente in grado, in tutte le loro iniziative, di farci apprezzare il valore dell’abitudine affettiva? Anche nei confronti del dolore, siamo in presenza di insegnamenti scolastici che educhino i nostri figli, fin dall’infanzia, al ruolo che il dolore può avere nella formazione della tenacia con cui si mettono a segno i tentativi di superarlo?

Non sono sicuro di una risposta positiva generale.

Anzi penso che nella maggioranza dei casi la risposta sia decisamente negativa.

E questo perché?

Perché questa nostra umanità ha perso di vista il contenuto cognitivo, ossia il valore conoscitivo e educativo, che si annida nella forza dell’abitudine e della ripetizione affettiva.

La sofferenza svolge un ruolo importante nella valutazione dei propri poteri sul mondo. Con la sua presenza saltuaria nella vita quotidiana di tutti noi, sia sotto forma mentale che fisica, impariamo a convivere con i nostri limiti. Il dolore ci insegna ad amare le altre persone nello stesso modo in cui possiamo amare noi stessi, perché ci avvicina ai limiti dei nostri simili.

In alcuni casi però non accade così.

E sono convinto che non accada affatto, soprattutto quando nessuno ci ha insegnato cosa dobbiamo farcene di tutto questo dolore.

Certamente non sono un fautore del dolore come tecnica educativa. Non credo assolutamente che la sofferenza sia un metodo per raggiungere le più alte vette del sapere e della realizzazione umana. Di certo, so che il dolore esiste in questo mondo, sotto diverse forme e spesso viene invocato e provocato come rimedio per indurre a gratuite sopportazioni.

Sarà dunque il caso di renderlo utile a qualche cosa, o no?

Sarà il caso di cominciare a porsi qualche domanda sul ruolo del dolore, o no?

Specialmente quello mentale (non quello fisico che dobbiamo comunque combattere con ogni mezzo offertoci dalla scienza) potrà essere strumentalizzato a nostro favore, oppure dobbiamo solo superarlo senza elaborare su di esso una teoria che ce lo faccia in qualche modo comprendere?

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