È tutta questione di… prudenza.

Lo sappiamo bene: non conviene mai avere fretta. Non possiamo ottenere tutto e subito.

Anche la donna, quando concepisce un figlio e ancor più quando il figlio nasce, deve rielaborare il suo rapporto col tempo. Nove mesi scanditi dalle tappe di sviluppo del feto, l’attesa del parto, la nascita e il tempo successivo dedicato totalmente al figlio rendono cosciente la madre che il tempo è del figlio e non più suo. Non possiamo fare i genitori più velocemente del tempo fisiologico di cui dispongono i figli per crescere. La gatta frettolosa fa i gattini ciechi.

Il tempo è una delle categorie della mente e della cultura, che è particolarmente percepito dalla nostra mente quando nella nostra quotidianità, che ci appare ovvia e scontata, sopraggiunge il dolore. Ecco che scompare il senso di ovvietà e nulla ci appare più scontato.

Circa il significato che si può attribuire al dolore le possibilità sono due: lo interpreto in ottica fenomenica, non trovandovi alcun significato e non vado oltre il dolore stesso. Se l’interpretazione guarda al noumeno, all’essenza, cerco di controllarlo o eliminarlo, ma mi pongo anche il problema del dolore altrui e del ridimensionamento del mio.

Questo misterioso e lungo processo di confidenza con il dolore, avviene anche grazie alla mielinizzazione, cioè alla ricopertura di mielina (guaina proteica) dei collegamenti neuronali. Col completamento di questa funzione si perfeziona il nostro agire nel mondo: il bambino cammina, parla, pensa quando la parte del cervello deputata a quella funzione ha completato la mielinizzazione.

In seguito a tale processo fisiologico, la mente si forma attraverso l’abitudine, da intendersi come abito mentale. Condividiamo con gli appartenenti alla nostra cultura le abitudini che col loro ripetersi danno sicurezza. L’infrangersi dell’abitudine per un qualsiasi evento, specie se traumatico e triste, costituisce un terremoto emotivo che richiede l’elaborazione del lutto. Il decondizionamento dall’abitudine ha un costo non indifferente e soprattutto richiede tempo. Ecco perché il dolore per una perdita ci rende consci dei limiti delle nostre possibilità di agire sugli eventi.

Ma il concetto che si affianca a quello di dolore, perché da questo può aiutarci a risorgere, è quello di resilienza, intesa come capacità che i sistemi viventi hanno di superare le difficoltà e di uscirne. La capacità di essere resilienti può costituire anche il discrimine tra il vivere e l’esistere dopo che le avversità hanno colpito duramente.

Vivere ed esistere non sono la stessa cosa e se vivere può essere un fatto inerziale per esistere occorre un metodo.

Stabilito che nasciamo all’interno di una relazione sociale a due, nessuno di noi è un individuo del tutto autonomo, quindi in ogni cervello c’è una quota di pensiero personale e una di pensiero culturale. I nostri neuroni lavorano se sono uniti tra di loro in rete e questo li rende forti e funzionanti. Anche noi siamo come loro: innamorati siamo proiettati nell’agire, nel futuro e la nostra mente si ossigena.

Ecco perché la mente ama. Perché esprime l’agire dell’uomo verso un fine ultimo.

Una meta merita attenzione, impegno e superamento dei pregiudizi. Per fare ciò il cervello necessita di tenacia, pazienza e tempo, ma l’evoluzione lavora in milioni di anni e a noi non conviene andare più veloci del tempo.

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