Caracas è una città in ginocchio
Ho lasciato le comodità di Madrid, per raggiungere l’inferno di Caracas, città in ginocchio ostaggio della mancanza di corrente elettrica. Sono entrato in Venezuela dalla Colombia, seguendo le ong e le onlus spagnole, come giornalista e aiuto infermiere. Da oggi scriverò dalla zona nord della capitale venezuelana, spaccata in due da una vera e propria guerra civile, coi negozi degli alimentari svuotati, il traffico dimezzato, la rabbia che serpeggia, lappatura che morde ovunque, in attesa di una resa. E della corrente che non torna.
L’alba è accolta come fossimo ominidi primordiali che si inchinano alla luce del dio sole. Al terzo giorno di seguito senza energia elettrica, tutti hanno perso la speranza di avere un frigorifero funzionante nell’afa di una primavera bollente.I caraqueños si sono ingegnati contro miseria e mancanze da decenni. Molti preferiscono dormire in auto che farsi 12 piani a piedi, ogni volta che è necessario uscire di casa. La corrente dovrà tornare prima o poi. Caracas è una città letteralmente in ginocchio, che allunga le mani al cielo ma non afferra nulla. Due milioni di abitanti divisi in una ventina di quartieri, poveri o ricchi, dove da anni non si vede un negozio pieno di frutta o carne. I negozi sono chiusi, incendiati o aperti con una miserabile offerta di miserabili prodotti. Costosi, d’importazione. Soltanto farina costa poco, ma col blocco delle centrali, il sistema idraulico dei palazzi funziona singhiozzo. Fuori ci sono 28-30 gradi di giorno e il 92 per cento di umidità, così ogni alimento fresco si guasta in meno di un’ora. E anche lo scatolame non ha più una vita lunga. A trovarlo, poi lo scatolame. Una lattina di tonno costa come venti a Milano. I negozi di alimentari sono ancora più vuoti delle settimane precedenti. Il nervosismo dilaga, ma non si perde la speranza. Da Cuba sono arrivate tonnellate di frutta, platanos y mangos, ma è frutta destinata a marcire in fretta se non viene venduta o regalata. Per trasportarla ci vuole energia, o gasolio che scarseggia.
Fa molto caldo a Caracas, la gente è ancora più incazzata di un mese fa, ma non lo dà a vedere più di tanto, implode interiormente e poi esplode in piazza in uno sfogo collettivo che sembra un esercizio di purificazione collettiva. Sguardi bassi, volti esasperati dalla mancanza di tutto e dalle bugie raccontate da ogni parte. Quando non hai nemmeno due cubetti di ghiaccio in frigo, perché il frigo non funziona da giovedì, allora te ne freghi della rivoluzione bolivariana del defunto Chavez. E guardi anche con sospetto questo milionario ben vestito che chiede nuove elezioni, ma ogni tanto sparisce per poi ricomparire. Forse se ne va a Miami a cercare una sponda d’intervento tra gli anticastristi. Ormai del Venezuela, questa è la triste verità, non frega più a nessuno. Da un secondo all’altro si aspetta che qualcosa succeda. Qualcosa di terribile che poi aprirà alla speranza. Se ritorna la luce, forse, ritorna anche la democrazia che non c’è mai stata. I black-out sono a macchia di leopardo, ma otto quartieri su dieci sono da cinquanta ore di seguito senza luce. Chi ha un impiego, va in ufficio come se fosse negli anni Venti: tutto manuale, ricevute scritte, pc spenti, documenti trascritti a mano e sette piani a piedi senza ascensore con impianti antincendio inservibili. Scrivi 2019, ma leggi 1819. Le banche aprono per un paio d’ore, non danno soldi, ma solo consigli. Sistemi bancari, di calcolo, registrazione e di sicurezza non funzionano senza corrente, nulla funziona senza corrente. Anche la Borsa si è arresa, invece di tirare fuori i pallottolieri e le calcolatrici a manovella. Telefonare è un’impresa: le linee saltano o cadono, stai parlando con un parente a Catia La Mar, poi ti accorgi che sei collegato con uno sconosciuto che da due giorni cerca di chiamare in Brasile dalla zona di San Bernardino. Comico e grottesco, come una puntata della serie tv “Black Mirror”. Il peggior futuro distopico e dispotico che si possa temere. Caracas è uno specchio nero che non riflette più nulla, alimenta soltanto disperazione e confusione. Nemmeno di giorno quando il sole è alto, la brezza marina sale verso le montagne, si sta bene. L’aria à lattiginosa, inquinata, impregnata di umidità polverosa, di zolfo e catrame. E di tanta umanità che annaspa. La sera dai balconi cade un flusso di cenere, qualcuno accende delle torce coi giornali per gridare che su c’è vita umana, terrestre. Magari a qualche astronave extraterrestre di passaggio, disposta a dare un passaggio a qualche miserabile (non per colpa sua) verso un altro mondo. Perché del Venezuela, non frega più niente a nessuno.
Le tre stazioni principali dei treni, la Hoyada, Terminal Caracas e Propatria sono terra di rifugiati che sostano da una settimana. Centinaia di persone dormono stretti ai propri averi, in un’attesa infernale che non ha mai fine. Tutto fermo, niente viaggia. Niente si muove. In aeroporto si sono rifiutati di emettere ticket a mano. I generatori non riescono nemmeno a dare energia alla torre di controllo per più di un’ora, poi salta tutto. Chi vuole raggiungere le località di mare o scappare dal paese, non ha scampo. Caracas è una nave che sta lentamente affondando, consapevole di quanto succede, rassegnata. Si attende un miracolo. Gli ospedali sono o più colpiti dall’assenza della linfa che muove tutto. I generatori non funzionano, o funzionano a singhiozzo, non hanno avuto assistenza, si ingolfano – mi dicono – e il caldo e la mancanza di macchine mediche mietono vittime. Bambini in crisi respiratorie, cardiopatici, anziani. Operazioni chirurgiche rinviate. I malati gravi stanno morendo come mosche. È emergenza, manca la corrente, manca la forza principale che muove tutto nella società moderna. Si vive come nel Medioevo, età in cui, per, erano più abituati a gestire l’oscurità e le faccende quotidiane. Perché di notte si rimane in casa a lume di candela o con una vecchia lampada a olio o a etanolo da minatore. Si prende un po’ di luce da ogni dispositivo: dagli schermi dei computer o dei elefantini, dalle torce con la dinamo. Fuori le ombre sono una minaccia, sono la morte, non portano nulla di bene, se non un coltello alla gola e una rapina. O uno stupro.
Di chi è la colpa della mancanza d’elettricità? Le centrali termoelettriche sono vetuste, mancano pezzi di ricambio, alcune sono bruciate da anni, altre sono state sabotate, dai pro Maduro o dai pro Guaidó. O dai Marines? Va peggio per chi abita nella zona sud, dove mancano i generatori e i pannelli solari. Maduro in camicia rossa e pugno chiuso accusa in tv il golpe perenne degli Stati Uniti aiutati da Guaidó. La società è spaccata in due e serba rancore per tutti e tutto. Poveri contro ricchi. Non esiste una via di mezzo in questo inferno di ideologie bruciate e velenose. Ieri, sabato, si è manifestato in piazza, inutilmente, contro il regime madurista. Anche oggi, domenica, ci sono manifestazioni e rabbia sparsa. Ma la corrente non torna. E a Caracas fa molto caldo. Tutti cercano il ghiaccio, più della benzina o delle aspirine. E si vende caro: stamattina per un chilo volevano cinque dollari, stasera ne chiederanno quindici. Somme impossibili anche al mercato nero che è l’economia parallela di Caracas. Anche sottobanco, pur pagando manca quasi tutto. Cuba invierà una ventina di dottori. Ma non c’è la corrente. E a Caracas la temperatura sociale aumenta. In attesa che tutto esploda come una stella morente e malata di una lenta agonia. La verità? Del Venezuela non frega niente più a nessuno.