Qualche mese fa El País, il quotidiano più letto di Spagna, pubblicava una lungo reportage sul fenomeno che sta segnando negativamente il mondo del lavoro da qualche anno: il burn-out, un termine che descrive una persona “bruciata” dal proprio lavoro, non una categoria professionale specifica, ma in modo trasversale, varie categorie, dall’architetto, alla commessa, passando per l’operaio. Un fenomeno che nasce da più aspetti e non dipende direttamente da quanto la propria professione sia pesante o meno, perché non incide soltanto la stanchezza o lo stress.
Per approfondire questo aspetto, ho parlato con due professioniste del settore, Eleonora Caforio, psicologa del lavoro e coach, e Sara Labanti, formatrice, autrici a quattro mani di “Se il lavoro ti ruba l’anima” (Mimesis, 262 pagg. €22), un saggio molto completo e interessante che affronta, raccogliendo molte testimonianze, questa “malattia” che insidia le vite professionali. E per l’occasione ho intervistato le due autrice, a loro esordio letterale che, lo scorso maggio hanno presentato la loro opera all’ultimo Salone del Libro di Torino.

Dove nasce l’esigenza di scrivere questo libro?

«Nasce da quattro mani ma da un’unica intenzione: quella di dare voce a un disagio diffuso e, allo stesso tempo, aprire uno spazio di riflessione autentica sul senso del lavoro oggi. Entrambe, come professioniste e consulenti, abbiamo vissuto in prima persona le disfunzioni del sistema lavorativo contemporaneo e il malessere che spesso genera. E da questa esperienza condivisa è scaturita l’idea di trasformare le domande che ci portavamo dentro, come “Cosa sta succedendo?”, “Che cosa ci manca?” e “Come possiamo ritrovare equilibrio e significato?”, in un racconto capace di coinvolgere chiunque lavori».

La lettura è molto scorrevole e piacevole, non sembra un saggio.

«Non volevamo scrivere un saggio teorico ma costruire un racconto corale. Per questo il libro raccoglie storie vere, voci plurali e prospettive differenti, restituendo complessità e umanità al tema del lavoro. La prefazione, affidata a Davide D’Ambrogio, e l’appendice di Luciano Manicardi arricchiscono ulteriormente questo dialogo, intrecciando visioni diverse ma complementari: quella popolare e quella spirituale, quella del manager e quella del monaco. Al centro del testo c’è un’urgenza comune: superare il paradigma dominante fatto solo di prestazione e produttività, e tornare a un lavoro che non ci svuoti, ma ci rispecchi. Un lavoro che sia spazio di libertà e crescita. È tempo di ripensare il lavoro, non solo come ciò che facciamo, ma come luogo in cui ritrovarci, trasformarci e contribuire in modo autentico».

Perché questo titolo?

«Quando diciamo che il lavoro “ruba l’anima”, non ci riferiamo solo allo stress o alla stanchezza, ma a una forma più profonda di svuotamento: quella che ci riduce a ruoli, numeri, prestazioni. È il paradosso di un sistema in cui non si lavora più per vivere, ma si vive per lavorare. In questo ribaltamento perdiamo contatto con chi siamo, confondendo il nostro valore con ciò che produciamo o con quanto siamo visibili».
Il lavoro, che dovrebbe essere uno spazio di crescita, rischia così di diventare un luogo di disumanizzazione. Nel libro esploriamo le molteplici forme di disagio lavorativo — burn-out, insicurezza psicologica, relazioni tossiche, narrazioni distorte sul successo e sul fallimento — e il modo in cui questi meccanismi minano la nostra libertà interiore».

Affrontate anche il lato spirituale.

«Sentivamo, infatti, la necessità di tornare a parlare di “anima”, intesa come nucleo profondo del sé, ciò che dà senso e direzione alla nostra vita. Perché nel lavoro riversiamo sogni, passioni, ma anche paure e fragilità. E quando il lavoro ci opprime, non è solo il corpo a cedere: è l’anima a soffrire. Nel testo recuperiamo il significato originario di “cura dell’anima”, ispirandoci alla tradizione filosofica. Nel testo si invitano i lettori a riconoscere anche che esiste un altro tipo di lavoro: quello invisibile, lento e non misurabile. Non produce profitto, ma genera significato. Non ci incatena al tempo, ma lo trasforma. Ci fa fiorire, non solo funzionare. È di questo lavoro — più umano, autentico, trasformativo — che oggi abbiamo urgente bisogno. Un lavoro che sia anche cura, relazione e vocazione».

Che ruolo gioca il desiderio in questo libro? E perché è così importante tornare ad ascoltarlo, anche nel contesto lavorativo?

«Il desiderio è il filo rosso che attraversa tutto il libro, perché sposta il focus della nostra vita lavorativa dal tema della performance a quella del senso. Non parliamo del desiderio come capriccio o ambizione individualista, ma come forza trasformativa, profonda e originaria che muove la vita, orienta le scelte, offre direzione all’agire e permette di vivere il lavoro come spazio di espressione e non solo di produzione. In un mondo del lavoro che spesso ci abitua alla reattività, alla sopravvivenza o al semplice adeguamento, tornare ad ascoltare il proprio desiderio significa riappropriarsi della direzione.
Nel libro, il desiderio è ciò che ci permette di fare discernimento: ci aiuta a distinguere ciò che ci corrisponde da ciò che ci è stato imposto da modelli culturali, aspettative esterne o ruoli predefiniti. È una chiamata all’autenticità, a non accontentarsi di funzionare, ma a vivere il lavoro come spazio in cui crescere, contribuire, trasformarsi».

Ma come si fa ritornare il desiderio a lavoro, rinnamorarsi del proprio lavoro?

«Nel contesto lavorativo, recuperare il desiderio è un atto rivoluzionario: significa riconoscere che le persone non sono solo risorse da ottimizzare, ma soggetti capaci di visione e creatività. E significa anche ricordare che nessuna vera innovazione nasce dal dovere sterile: nasce da chi è mosso da una passione, da un’urgenza interiore, da un desiderio. In quest’ottica, il desiderio non è solo personale: è un potente generatore di cultura organizzativa.

Eleonora Caforio e Sara Labanti, autrici del libro presentato all’ultimo Salone del Libro di Torino.

Le aziende che sanno coltivarlo – attraverso spazi di ascolto, autonomia, cura e fiducia – sono quelle che permettono alle persone di esprimere il meglio di sé, in modo libero e generativo. E proprio lì, dove il desiderio può trovare voce, nasce il futuro del lavoro: più umano, più autentico, più vivo».

Perché leggere questo libro? Che tipo di cambiamento vorreste ispirare?

«Questo libro nasce con un duplice scopo: da un lato, aiutare le persone a ritrovare un equilibrio autentico nella propria vita professionale; dall’altro, offrire alle organizzazioni strumenti per costruire una cultura del lavoro più umana, fondata sui bisogni reali delle persone. Lavoro e organizzazioni non esistono senza le persone: sono le loro relazioni, emozioni e risorse interiori a dare vita a tutto il resto.
Per questo, sul piano individuale, il libro invita a esercitare discernimento, a distinguere ciò che ci appartiene da ciò che ci è stato imposto, e a riscoprire nel lavoro uno spazio di trasformazione e verità. Anche in contesti rigidi, esiste sempre una possibilità: scegliere. E scegliere significa restare fedeli a ciò che ci muove davvero. Sul piano collettivo, proponiamo una visione radicalmente umana del lavoro».

Ci vorrebbe un po’ più di umanità contro la disumanità di molti lavori.

«Umanizzare non è un lusso, ma una necessità urgente e strategica.
Vuol dire creare ambienti dove si possa non solo produrre, ma anche crescere, contribuire, sentirsi visti e valorizzati.
Vuol dire rendere concreti valori come inclusione, fiducia, autonomia e cura.
Nel libro raccontiamo storie di aziende che hanno già imboccato questa strada, integrando tecnologia, benessere e ascolto attivo.
Sono realtà che hanno compreso una verità semplice ma potente: il benessere delle persone è la vera chiave per la sostenibilità e il successo.
Come afferma l’economista Ha-Joon Chang, investire nelle persone è una strategia lungimirante, non solo etica. Il futuro del lavoro è umano. E chi sceglierà di percorrere questa direzione potrà generare valore duraturo — per le persone, per le organizzazioni, per il mondo».