Laura, Louisa, Maren e Antonio, vittime della declinazione dell’odio
Il pomeriggio è ancora caldo a El Campillo, paesino andaluso a cinquanta chilometri a nord-ovest di Siviglia. In questo borgo di meno di duemila anime, Laura Luelmo, 26 anni, insegnante di educazione tecnica, ha appena preso possesso di un appartamento. In lista da due anni, ha ricevuto il suo primo incarico da professoressa presso un istituto tecnico della zona. Felice per l’impiego e l’opportunità di lavorare, ha salutato il fidanzato e la famiglia e lunedì 10 ottobre è partita per la provincia di Huelva. Martedì pomeriggio, il giorno prima di incontrare a scuola i suoi studenti per la sua prima lezione, Laura indossa una tuta, calza scarpe da running e va a correre nella campagna circostante. Come molti, così Laura scarica la tensione e si tiene in forma. Un’ora dopo quel momento Laura diventa un fantasma. Non fa rientro a casa, dove le valige sono ancora da svuotare. La madre chiama il suo cellulare fino a giovedì mattina, poi il telefono tace. E allora dà l’allarme, presentando denuncia di scomparsa della figlia.
Si pensa a un incidente, la zona dove Laura è andata a correre è impervia e desolata, con rocce aguzze e piccoli canyon dove è facile cascarci dentro. Laura potrebbe avere inciampato, precipitando in una piega di quella terra argillosa. Potrebbe essere ferita e ancora in vita. Le ricerche scattano subito, trenta persone la cercano e passano la zona al setaccio. Nulla, poi arrivano i cani molecolari e si teme il peggio. Quattro giorni dopo la sua scomparsa, il cadavere di Laura viene trovato nascosto nell’erba alta e secca, coperto di qualche roccia. Il corpo privo di vita è seminudo e ha evidenti segni di violenza fisica. Solo gli esami autoptici diranno se è stata anche violentata. È evidente una grossa ferita alla fronte. Potrebbe essere la ferita di un colpo mortale alla testa. Laura potrebbe essere stata portata a una decina di chilometri dal suo percorso sportivo, violentata e uccisa. O lasciata agonizzante in quel luogo desolato.
Lunedì sera, poche ore dopo il ritrovamento di Laura, la Guardia Civil arresta il vicino dell’abitazione della giovane insegnante. Tale Bernardo Montoya, già condannato in passato per l’omicidio di una donna e violenza sessuale su un’altra. Montoya ha trascorso la metà della sua vita dietro alle sbarre, e ora sta per farci ritorno. Da un mese è uscito di galera. Inizialmente Montoya nega con caparbia le accuse di omicidio, ma all’alba di mercoledì, dopo una notte sotto torchio, confessa tutto. Dice di averla vista correre, di averla avvicinata e e di averle tentato violenza sessuale, poi l’ha tramortita, legata e nascosta per tre giorni nel bagagliaio della sua auto. Lì, senza cibo, acqua e con poca aria, Laura ha visto l’inferno. Poi Montoya, il suo carnefice, recidivo a essere una persona, l’ha portata in un luogo isolato e l’ha ucciso colpendola alla testa con un oggetto e l’ha gettata come fosse una scarpa vecchia, in un fosso.
Laura è la 45esima vittima della violenza di genere del 2018. La numero 973 dal 2003, da quando il ministro degli Interni spagnolo tiene questo macabro bollettino. La storia di Laura ha colpito profondamente gli spagnoli, più di ogni altro caso di femminicidio. Il Natale che arriva ha indotto gli spagnoli a sperare fino all’ultimo per un finale felice. Invece le cronache hanno descritto, ora dopo ora, questo mostro della porta accanto, venuto dal nulla. Si è scoperto che da giorni il carnefice la spiava, bramando qualcosa di orrendo. Laura aveva avvertito la sua presenza molesta e aveva confessato al fidanzato al telefono che quel vicino la inquietava profondamente. Il vicino mostro già vent’anni fa aveva ucciso, si era fatto quindici anni di carcere e un anno fa era ritornato in gabbia dopo avere violentato una donna. Un bastardo recidivo che meriterebbe la pena di morte, come hanno detto a denti stretti molti abitanti di El Campillo intervistati in tv. Un soggetto che non doveva essere rilasciato nella società dopo un omicidio. È dal 1978 che la pena capitale è stata abolita in Spagna, pochi anni dopo la caduta del regime di Francisco Franco. Gli ultimi spagnoli giustiziati con la garrota nel 1974 furono l’anarchico catalano Salvador Puig i Antich e il criminale comune Georg Michael Welzel. Poi nel 1976 furono fucilati alcuni terroristi dell’Eta e due anni dopo, con la proclamazione della repubblica di Spagna, la pena capitale fu abolita.
Davanti al tragico epilogo di una vita così giovane, rubata da un criminale recidivo e ancora più pericoloso di quando era in carcere, i commenti sono superflui e devono, se proprio volete, essere fatti con grande attenzione e prudenza. Laura potevamo essere noi, nostra figlia, la nostra amica o vicina di casa. Così come le due turiste scandinave, la danese Louisa Vesterager Jespersen e la norvegese Maren Ueland, di 24 e 28 anni, trovate mezze decapitate sui monti Toubkal in Marocco, sembra per mano dei terroristi di al-Qaida che avrebbero girato un macabro video dell’esecuzione. E poi c’è anche il nostro Antonio Megalizzi, anche lui vittima innocente dell’odio dell’integralismo musulmano. C’è anche la sua tragica morte a urlare giustizia. Laura, Louisa, Maren e Antonio, accomunati nella tragedia, perché non bisognerebbe distinguere le morti col genere sessuale. Perché scrivere una lista di donne uccise dai propri compagni o dai maniaci? Perché contare le vittime come fossero solo dati statistici?