Dopo quindici anni, la ferita di Atocha è ancora aperta
Quindici anni fa l’esplosione di Atocha e della storia hanno segnato la mia vita di corrispondente. Ero ritornato in Spagna da una sola settimana, dopo una pausa a Milano di un paio di mesi e mi ritrovai nell’inferno del terrorismo islamista. Quella mattina ero a Barcellona, 600 km più a nord-est, io con il collega fotografo ci buttammo in strada, con la radio accesa e un Paese immobile e sconvolto che non credeva che avessero colpito con tanta crudeltà il suo cuore pulsante, Madrid, la Capital. Treni fermi, aerei a terra, scuole chiuse e tanta paura e impotenza.
Arrivare a Madrid fu complicato e impegnativo: posti di blocco, strade chiuse, mentre le radio iniziavano a ripetere che non poteva essere attribuita la colpa all’Eta tale massacro. Come si seppe, qualche giorno dopo, l’attentato dinamitardo sui due treni pendolari in arrivo a Madrid era stato organizzato da al-Qaida per punire la Spagna per avere inviato le sue truppe in Afghanistan e Iraq, come aveva deciso il governo di destra di José Maria Aznar.
E fu davanti a una colonna di fumo nero e acre, davanti all’odore chimico di esplosivo, polvere e sangue, che iniziò ufficialmente il mio lavoro, dopo settimane di studio della lingua, ozio e tanti dubbi. Avevo un biglietto per rientrare a New York. Ma c’era qualcosa e qualcuno a trattenermi. Ora mi chiedo, doverosamente, e anche con un po’ di rimpianto, che cosa sarebbe stata la mia vita se fossi tornato a vivere negli Stati Uniti.
Invece, l’11-M, come semplificano gli spagnoli, mi sorprese e travolse e mi battezzò col fuoco. Il 28-A gli spagnoli andranno, per la terza volta in quattro anni, alle urne.
L’11 marzo del 2004 , un giovedì, gli spagnoli stavano per votare la domenica. Era un giovedì di una primavera umida e piovosa, pioveva anche a Barcellona che aveva esposto in spiaggia le bandiere rosse: mare forte, divieto di balneazione. Il vento intriso di salsedine risaliva dal porto per le tre ramblas. Quando le agenzie lanciarono la notizie, seguite dalle prime agghiaccianti immagini della tv, l’intera Spagna smise di respirare. Nei bar le persone si portavano la mani sulle labbra, sul volto, qualcuno piangeva, qualcuno malediva l’Eta. Tutti avevano paura. Nessuno capiva il perché.
Quando arrivammo a Madrid, nel primo pomeriggio, i pompieri stavano ancora tagliando le lamiere per tirare fuori i corpi macellati dall’esplosione. Santiago, il fotografo che era con me scattò questa foto per l’agenzia EFE e il giorno dopo era su El Pais, un bomberò, un vigile del fuoco esausto, col fumo nelle narici, affranto dal disperazione dopo aver visto quel massacro. Due giorni dopo, sul sito web del Pais c’era un bellissimo mosaico con le quasi duecento vittime dell’attentato. Tutti i loro volti, bastava cliccare su un volto a caso per conoscere un riassunto di quella vita spazzata va della follia integralista, un compendio di emozioni e di dolore. Mentre attendevo di scrivere e che mi chiamassero da Milano, passai una mezz’ora a cliccare sui volti di quegli sconosciuti. A caso. Laura Z.,26 anni andava a Madrid per un controllo: era al quarto mese di gravidanza, le piacevano le commedie romantiche che vedeva con suo marito Alvaro, avvolta nella coperta di sua nonna basca Begonia, sul divano, il sabato sera. Erano sposati da due anni, sarebbe stato il loro primo figlio…o Marcos G,, 45 anni, dentista e volontario nel Kosovo, tre figli e due cani. Amava giocare a padel e tifava il Real Madrid….storie di sconosciuti che, le leggevi e le sentivi già tue, e loro erano amici tuoi, tuoi cari, e ti emozionava quel brevissimo compendio di una vita spazzata via dall’odio e dalla stupidità.
Madrid, 11.3.2004 – 11.3.2019
192 vittime e 2057 feriti