Spagna, gli ospedali sono al collasso
Volete immaginare sulla Terra l’inferno? Entrate in un ospedale di Madrid e avrete ogni girone di sofferenza, abbandono, sconfitta, rabbia, impotenza. Qui gli angeli caduti dal paradiso vogliono salvare vite, ci provano, svolgono turni davvero infernali. Mai nessun aggettivo fu usato con più correttezza. L’Hospital de la Puerta de Hierro, clinica pubblica, universitaria, moderna. È stato invaso da quattrocento casi di Covid-19, quattrocento interventi, prima al pronto soccorso, poi in ambulatorio, un terzo i morti, due terzi in terapia intensiva. Solitamente quattrocento ricoveri si fanno in tre anni in questo nosocomio. Tre anni, in due settimane, tanto che hanno precettato tutti i medici, hanno accettato anche quelli in pensione da dieci anni, hanno fatto recitare il giuramento di Ippocrate agli studenti di Medicina cui mancava soltanto la tesi. Lo stesso per gli infermieri: sai fare una flebo? sai posizionare un respiratore? Sai fare un prelievo del sangue? Abile e arruolato. Non importa se hai studiato ortopedia o ginecologia, entra nell’inferno e datti da fare. E cerca di rimanere vivo. Perché dopo un mese di battaglia contro questo maledetto virus che viene da lontano, in 1200 tra medici, infermieri e personale sanitaria hanno perso la vita in tutta la Spagna, come militi ignoti, strappati alla vita dopo che hanno salvato vite, senza usare un fucile o lanciare una granata. È la guerra più pulita di sempre, senza una goccia di sangue, uno schizzo di fango, un’esplosione, a nuvola di monossido di carbonio.
Inutile scrivere il numero dei morti, dei caduti, tanto domani sarà ancora più alto, ma la Spagna si avvicina a passo spedito verso i 10 mila decessi e gli 80 mila contagi. Certo, ci sono anche quasi ventimila spagnoli dimessi in perfetta salute, che hanno vinto la loro battaglia pulita. Che hanno polmoni nuovi di zecca o quasi, irrorati per giorni di ottimo ossigeno, col sangue ripulito da potenti antibiotici e nuovi farmaci sperimentali. Ma a loro, i medici, prima di congedarli, e rimandarli al fronte urbano hanno detto: fate attenzione, potete ricaderci e noi potremmo non avere il tempo e le medicine per salvarvi un’altra volta.
Per Il Giornale, su mia iniziativa, ho fatto il giro di quattro principali hospitales di Madrid. Non lo rifarei più, non per il rischio di rimanere contagiato, anche se ogni volta che attraversavo una sala d’attesa, affollata di gente in triade (per lo più uomini over sessanta) che tossivano come vulcani eruttando coronavirus al 100%, potevo rimanerci secco, benché fossi protetto con lo scafandro usato da Neil Armstrong sula Luna. Perché non è una bella cosa assistere alla sofferenza delle persone, guardare i medici con le mani in testa, impotenti davanti a una febbre a 41°C, la mancanza di ventilatori polmonari, di infermieri, con i positivi chiusi in un’ala dell’ospedale in attesa che succeda qualcosa, anche un miracolo: perché spesso capita che quella tosse si ferma, e l’aria riprende a entrare nei polmoni, dipende dal propio sistema immunitario, più forte giovane è, prima si vince. Se no si perde, si muore su un lettino, via il respiratore, e avanti un altro e quel corpo che pochi attimi fa conteneva una vita e la storia di un uomo, scende tre piani a non lo si può chiudere in una cella frigorifera, in attesa delle onoranze funebri. No, non si può. Le celle sono piene, tutto sold out e i cadaveri finiscono in un sacco militare, come in Vietnam. Alle sei del mattino arriva l’esercito e carica quelle spoglie su una camionetta rosso-gialla e li porta al Palacio del Hielo, un tempo luogo di gioia, ora diventato un enorme camera mortuaria, a 5°C, coi sacchi militari stesi sul ghiaccio della pista. Un luogo surreale dove soltanto i paramilitari possono entrare, vietato l’ultimo congedo coi parenti.
All’Hospital de la Paz. Oltre a mascherine e soluzioni soluzioni per flebo, sono finite le bare. Non ci sono più casse mortuarie. Per onore del vero, non ci sono nemmeno a Salamanca, a Valladolid, a Cuenca a Barcellona, a Bilbao. Madrid ne brucia nei crematori tra le 150 e le 200 unità. Ora i crematori hanno spento le fiamme, per legge non possono bruciare i corpi senza un sarcofago, altrimenti torneremo all’epoca di Achille. Quasi la metà dei decessi sono nella capitale, ormai spoglia di quella sua aria eterna di festa, di gioia, di spensieratezza quando ci si avvicina ai fin de semana, ai week-end. Quando i madrileni, che già sono usciti il mercoledì, il giovedì e il venerdì sera si preparano per fare il grande botto. “Nos quedamos en casa”, noi restiamo a casa invece. In attesa di tempi migliori. In attesa di svegliarci da questo maledetto incubo che ci ha fatto dimenticare quanto è azzurro il cielo di Madrid, un cielo prealpino, quando buona è la sua aria, ora che non ci sono auto e le fabbriche sono chiuse.
L’Hospital Ramón y Cajal, è abbastanza attiguo al la Paz, meno di un chilometro: si scambiano pazienti, materiale, consigli. Con Àlvaro, paramedico, scendo tre piani e siamo alle trenta celle frigorifere. Erano venti, ne hanno aggiunte dieci. I posti sono esauriti, altri quindici cadaveri restano fuori. Àlvaro mi guarda bene attraverso le sue protezioni e poi mi dice: «Una signora voleva darmi 500 euro per vedere il corpo del marito». Le ho detto di no, poteva rimanere contagiata. Le disposizioni sanitarie lo impediscono, tra una settimana, forse, le mandano una scatola a casa con le ceneri del marito. Bravo Àlvaro, brutto chiamarti portantino, ma è il tuo lavoro e tu lo svolgi con nobile animo, e sei degno di gloria tanto quanto un primario, ma potrebbero darti almeno mille euro, invece che 900 al mese.
All’Hospital Gregorio Marañón la sala d’aspetto è così affollata che la attraverso come un vietcong in un campo minato. Ogni colpo di tosse fa più paura di una mitragliata di piombo. Ma tutti sono seduti a distanza di un posto, tutti attendono l’esito del tampone. Ci vuole almeno un’ora e mezza. La situazione è grottesca. Montagne di scatole di medicinali sono rimaste ferme settimane in dogana. Non si trovavano gli agenti per i controlli, ci hanno mandato l’UME, i paramilitari delle emergenza che sono un po’ la nostra Protezione Civile, che stanno aiutando tutti, dalla Guardia Civil al pompieri. Prendono ordini dal ministero della Sanità e sono i nuovi eroi. Quelli che vanno a caccia di cadaveri di anziani negli appartamenti di Madrid, dove sono vissuti per gli ultimi anni da soli e sono morti da soli. Sfondano le porte, danno da mangiare a gatti e cani domestici, li adottano spesso, entrano negli ospizi abbandonati dalla repentina moria di ospiti over settanta. Li trovano cadaveri nei loro letti, abbandonati dagli infermieri che sono scappati terrorizzati da quella strage incontrollabile.
Qui a Madrid è l’inferno sulla Terra. E i contagi sono aumentati di quasi 10 mila unità in un solo giorno. Da sabato soltanto le aziende necessarie sono aperte. Gli spagnoli ora rispettano tutte le proibizioni, stringono i denti, ascoltano la radio. In Spagna dai cinquanta in su si ascolta molta radio, i dibattiti politici fiume. In attesa di tempi migliori.