Alle 18 le prime fragili ombre occupano la città e il cielo sopra Madrid è di un blu, quasi alpino. Settecento metri sul mare sono d’aiuto. Come ogni giorno, da quando è iniziata la strage di persone, di uomini comuni, di uomini importanti, di tanti medici (32) e infermieri (61), di trentenni, come di quarantenni, e settantenni, di ottantenni a riposo, soffocati dolcemente nel sonno, tra l’ultimo respiro tagliato dal cedimento dei polmoni e il collasso del cuore, negli ospedali che hanno isolato i contagiati da tutto, nelle tante case di riposo per anziani, che ora sono tombe, si accumulano file di bare. Da quando è iniziato questo futuro dispotico che non mostra nemmeno un lembo di speranza (se non l’aumento dei guariti a 5.345), ma soltanto un bollettino in aumento di morti (ieri 738 in sole 24 ore tanto che la Spagna è il Paese al mondo con più morti ogni giorno), da quando è iniziato questo cancro che attanaglia il mondo, nelle città spagnole, come nella sua Capital, azzoppata ma non vinta dal virus, alle 18, qualcuno da una qualsiasi calle, urla: “Libertad! Libertad!” con lo stesso impeto e le vene che esplodono nella pelle di come fece William Wallace, guerriero indomito dell’indipendenza scozzese contro Edoardo I Plantageneto.

E dopo quell’urlo spontaneo, drammatico, sanguigno segue un applauso, lungo, scrosciante che piove in strada con la forza della grandine in estate, una sassaiola di emozioni e parole non lanciate dai centomila balconi di Madrid. In calle Toledo suona la puntuale cacerolas delle 18. È una parola che in italiano si traduce soltanto con una frase: un modo di percuotere le pentole per fare casino, per fare sentire la voce della gente, dei madrileni, come dei barcellonesi o dei sivigiani. La voce di Spagna. Un altro modo per urlare: “Qui Madrid, siamo ancora vivi e resistiamo!”. Resistiamo nonostante tutto, nonostante questo brutto incubo che ci porta via la vita, dopo averci torturato in un letto, da soli, separati dai nostri cari.
Lo spettacolo è una meraviglia, commuove per quanto la sua cacofonia sgangherata e fuori ritmo (ogni palazzo segue il ritmo opposto dell’altro), ma dopo una ventina di minuti diventa ipnotico, come se vuole anestetizzare i pensieri, congelare dubbi e paure, fermare il dolore come  una medicina dal potere momentaneo.
E ora che la propria libertà coincide col numero di mq disponibili, il balcone diventa lo scranno di un immenso Parlamento di cittadini che vogliono dire la loro. Ma sapete che cosa si dicono i madrileni da un balcone all’altro? Penserete che parlano di morte? Di paura o del virus…? No, benché spaventati a morte, Dona Begonia del terzo piano, 71 anni maestra in pensione, soggetto altamente a rischio, chiede se qualcuno ha qualche videocassetta (sic) dei Serranos (una serie tv popolarissima che in Italia è diventata i Cesaroni), Pedro, studente di agraria, la butta sula Liga, maledicendo lo stop del fantacalcio. Gonzalo chiuso in casa con la fidanzata Laura, litiga per vedere Netflix, mentre lei che non ne può più di lui, come ogni donna, privata della sua privacy, che dopo undici giorni di convivenza forzata (o convivenza “per legge” come si dice qui) è una tigre incazzata, vorrebbe fargli a brandelli quella maglietta degli Iron Maiden che non cambia da giorni, rivela a tutta la comunità che scoppia in una fragorosa risata. Madrid come un immenso condominio Parlamento, dove si parla anche del futile, fino a quando non irrompe l’urlo sinistro di un’ambulanza che corre veloce per le strade deserte della Capital, a ricordarci che negli ospedali, nella linea di fuoco, si combatte ancora. Senza armistizio. Poi un altro, e un’altra, oggi se ne sono sentite più dei giorni passati. Sembra un’impressione, ma i numeri lo confermano: aumentano i contagi, aumentano i ricoveri, aumentano i morti e le bare che sono così tante che sono finite nel Palazzo del Ghiaccio di Madrid, 1800 mq a 5°C. Un luogo ludico trasformato in una gigantesca camera mortuaria frigorifera, in attesa che i tre crematori della città sbrighino il loro lavoro.

“Stai scrivendo che siamo a pezzi, ma siamo ancora vivi e vogliamo vedere ancora una volta la Spagna battere l’Italia ai Mondiali di Calcio”, mi urla ridacchiando Pedro da dieci metri  sul mio medesimo asse del mio piano. Ha 56 anni, avvocato divorzista, la moglie se ne andata per un tumore l’anno scorso: mi dice che i tribunali sono ingolfati di memorie di cause, esiti, verdetti, che nessuno trasmette via email come sempre e la sua attività è sospesa fino a data sconosciuta. “Ci saranno solo due persone che corrono attraverso le varie sezioni per inviare i documenti”. e impreca in italiano con al area che ha reso famosa la protesta di Beppe Grillo.
Qui Madrid, la voglia di vivere inizia a esser contagiosa, mentre stiamo avvicinandosi al picco dell’epidemia.