Quella mattina di vent’anni fa vivevo in Spagna da appena un mese. Ero a Barcellona, in un hotel vicino Liceu, uno dei teatri lirici più importanti di Spagna, quando la mia ragazza catalana dell’epoca mi inviò un curioso messaggio. Erano passate da poco le 8. “Hola Roberto, hace poco ETA hizo un atentado horrible en Madrid, hubo cientos de muertos…”. L’ETA? Centinaia di morti? Non è possibile, loro avvertono sempre prima proprio per evitare le vittime civili se non ridurle al minimo. Accesi il televisore e rimasi shoccato. Trasmettevano le prime immagini di quel carneficina dalla stazione ferroviaria di Atocha a Madrid, la principale della capitale. Un elicottero dall’alto mostrava i binari, pochi metri prima dell’ingresso in stazione con un treno sventrato in tre vagoni. C’erano pezzi di corpi umani sparsi sulle rotaie, un fumo denso e nero con i pompieri che stavano spegnendo le fiamme. Altre due stazioni madrilene erano state colpite: El Pozo con due ordigni su un convoglio e Santa Eugenia (un ordigno). Un’altra bomba esplose in un treno a un paio di chilometri da Atocha, era in ritardo, altrimenti sarebbe esploso assieme all’altro.
Mancavano tre giorni alle elezioni legislative. Da otto anni José Maria Aznar del Partito Popular governava. Raggiunsi Madrid quasi otto ore dopo l’attentato, tutto era stato congelato in terra iberica. eri e treni cancellati, stazioni e aeroporti chiusi e la rete stradale era interrotta dai controlli della polizia e dell’esercito. Rimasi fuori dal stazione per tre giorni, assieme ai parenti delle vittime che si disperano per l’assenza totale d’informazioni. I morti, zia “gli assassinati” come urlarono le associazioni antiterrorismo erano per la maggior parte pendolari che ogni mattina prendevano quei treni regionali per andare al lavoro. Erano uomini, donne, molti studenti delle superiori e dell’università. Le vittime furono 193, compreso il bimbo di sei mesi nella pancia della madre di ventitré anni vittima anche lei dell’atroce massacro jihadista; i feriti 2057. Ovviamente non c’entravano nulla i terroristi irredentisti dell’Eta, organizzazione che dalla fine degli anni Quaranta causava agguati mortali e attenti sanguinari a politici di destra e forze dell’ordine. Aznar che aveva puntato il dito proprio sugli etarras, si giocò e brucio il candidato del PP, Mriano Rajoy che avrebbe dovuto portare avanti il suo regno. E infatti vinse un tale giovane politico di nome José Rodriguez Zapatero, punta della sinistra socialista progressista spagnola, premito dal voto di protesta degli spagnoli inferociti per il maldestro tentativo del Governo uscente di scaricare le colpe sui Baschi. Era il peggiore attentato terroristico mai venuto in Europa. Undici furono gli zaini riempiti di esplosivo Goma-2 ECO, invisibile ai nasi dei cani delle unità degli artificieri. Un’ulteriore borsa con 500 grammi di esplosivo, un fucile militare, un detonatore e un temporizzatore collegato a un cellulare fu ritrovata inesplosa tra gli oggetti e bagagli raccolti sui luoghi degli attentati. La borsa, con tutte le altre borse e valigie, fu trasportata prima a un commissariato, (nessuno si era accorto del suo contenuto) e successivamente alla Fema, la grande fiera di Madrid dove erano stati allineati i corpi e i pezzi di essi recuperati tra le lamiere dei vagoni disintegrati. Quest’ultimo ordigno artigianale (che sarebbe stato inizialmente posto nel treno di Vallecas) condusse, poi, rapidamente alle prime ipotesi certe e ai primi arresti due giorni dopo, il 13 marzo. Grazie alla sim card, non registrata (all’epoca non era obbligatorio in Spagna registrare con un documento d’identità il proprio numero), rinvenuta nel temporizzatore dell’ordigno inesploso, infatti, si riuscì a risalire al negozio di Madrid che aveva venduto quella ricaricabile. Era un locatario, ovvero un Internet cfè dove per lo più gli immigrati telefonavano a casa o navigano in rete. Si scoprì che il titolare del negozio era un arabo tunisino, già informatore dell’Intelligence spagnola. Un mistero nel mistero, come saltò fuori nel lungo processo durato 8 mesi (che io seguii per Il Giornale) che distribuì migliaia d’anni di carcere agli 11 attentatori, mandanti e menti di quell’orrore. Mohamed, detto l’Egiziano fu beccato grazie alla polizia italiana nella moschea abusiva di viale Jenner a Milano, grazie a un’intercettazione telefonica. Si congratulava con la cellula jihadista di Madrid per avere eseguito i suoi ordini e avere punito gli infedeli. Fu subito estratto in Spagna e si prese 1280 anni di galera, perché nel codice penale iberico le pene sono cumulative. La Jihad aveva voluto punire la Spgna colpevole di avere inviato le sue truppe nella guerra in Iraq per sostenete l’esercito statunitense, stato di petrolio. Tredici anni dopo, quando vivevo a Barcellona, fui travolto ancora una volta dall’esplosione della storia, questa volta in prima persona, poiché mi trovai a una manciata di metri dal jihdista di ventidue anni che a bordo di un Fiat Doblò grigio si mise a inseguire e investire tutti coloro che erano passeggio sulla Rambla de los Capuchinos (del Caputxins, in catalano), in uno spazio quattrocento metri prima della statua di Cristoforo Colombo che su un piedistallo di venti metri guarda il Mediterraneo.