La Cop25 di Madrid è stato un fallimento totale
Per la prima volta nella sua storia, la Conferenza dell’Onu sui Cambiamenti Climatici si è chiusa con un bel nulla di fatto, in pratica con un fallimento, dove nulla si è stabilito, nulla si è deciso, ma si è rimandato tutto ai lavori della prossima assemblea del 2020 a Glasgow, in Scozia. Eppure a comune accordo della società scientifica, il 2019 si chiuderà com l’anno peggiore per i dati su aumento della temperature degli oceani, lo scioglimento dei ghiacci che dovevano essere eterni, la scarsa dei ghiacciai e tutte le altre catastrofi come inondazioni e siccità.
Oltre 196 delegati e rappresentanti dei Paesi dopo quindici giorni di incontri, negoziati, trattative al fulmicotone, appelli, filmati terribili e accuse, anche con una giornata e mezza di tempi supplementari, non sono riuscii ad accordarsi su nulla. Nessun Paese ha voluto fare un passo indietro, ingoiare una pillola cattiva, ma necessaria. C’è stato persino chi si è lamentato che voleva inquinare di più, come il Brasile e l’Australia che, essendo dei naturali filtri di pulizia per il monossido di carbonio mondiale, grazie ad alcune peculiarità territoriali, esigevano la licenza a inquinare di più per aumentare loro produzione industriale.
I motti di “act now” o “do more” alla fine sono rimasti soltanto slogan inattesi, benché le trattivi andassero a oltranza, senza pausa caffè. Alla fine si è sottoscritto un debolissimo appello a “fare in modo di non inquinare oltre, di coinvolgere le aziende e le persone”. L’accordo più atteso e più importante, quello relativo alla regolamentazione dei mercati di CO2, non è arrivato. Il rebus dell’articolo 6 del trattato di Parigi che ancora calcola in modo errato due volte le emissioni dall’utilizzo di carbone, sommando quelle del produttore e del compratore. I paesi europei hanno preferito rimandare piuttosto che prendere decisioni sbagliate, mentre gli Stati Uniti non si sono presentati né hanno mandato un loro delegato, confermando di essersi rimangiati il precedente “sì” all’eliminazione entro il 2050 delle energie dal carbon fossile, soprattutto del carbone, di cui sono ghiotte le industrie cinesi. “Un’occasione sprecata“, ha detto molto deluso il segretario generale Onu António Guterres. A pagare le pene peggiori saranno tutti queiPaesi poveri o in via di sviluppo o legati al turismo marino che rischiano di affondare, come le quattro isole polinesiane di Tuvalu o le nazioni devastata dalle ondate di siccità che contribuiscono a muovere migliaia di immigrati dall’Africa all’Europa.
Si dovrà attendere quindi la prossima Cop26, quella di Glasgow nel 2020, come abbiamo detto, per stabilire qualcosa che possa mettere in marcia gli accordi di Parigi che giacciono confinati a un cassetto di buoni propositi.